Miranda Pashaj guida Le Aquile: "Le donne possono dare molto al calcio, ma serve un cambio di mentalità nell'ambiente"

Sul territorio di Calcinato incide da tre stagioni una nuova società. Un gruppo giovane, di origine straniera ma da tempo integrato nella comunità, con una donna in un ruolo centrale dell’organigramma. Loro sono Le Aquile, lei è la vicepresidente Miranda Pashaj, moglie del numero del club rossonero, Elion Mehmetaj.

“Sposando mio marito ho sposato anche il calcio: lui nutre una passione talmente grande che il calcio viene prima di tutto. Ho praticato tanti sport nella mia vita, anche il calcio; il concetto di squadra mi attira. Il mio ruolo è impegnativo ma bello, per me si tratta della prima esperienza dirigenziale. Essere una donna porta a diverse reazioni in questo contesto: a volte ti guardano con gioia, altre sembra che si stiano chiedendo: ‘Questa cosa ci fa qui?’. L’ambiente è prettamente maschile e diretto da pochissimi giovani, quindi gli sguardi sono più negativi che positivi. Ma non ci faccio caso”.

Prima dell’approdo nel bresciano c’è un passato fatto di migrazione, calcio ed integrazione: “La società è nata nel 2019 ma ci lavoravamo da un paio d’anni. Lui è cresciuto in Grecia, giocava nell’Olympiakos, poi si infortunò, quindi scelse di trasferirsi in Italia. All’inizio fece fatica, non parlava la lingua, in più è riservato di carattere. Passò un periodo nel Calcinato in Promozione, stentando ad entrare nel gruppo, poi si sottopose a un intervento e rimase nei dilettanti. Fece un’esperienza a Manerba, dove subì un nuovo infortunio. Da lì la scelta di fondare una squadra per rimanere nell’ambito calcistico”.

“Io mi sono trasferita in Italia da Durazzo, Albania, a 8 anni. Mio padre lavorava già qui. Per noi fu un cambio drastico, ma ci adeguammo. È più facile quando sei una bambina, a nessuno interessa se sei straniero e i bambini si capiscono sempre. Da adulta è più complicato, si ha a che fare con molta burocrazia, è difficile trovare un posto di lavoro”.

Per ora il club rimane a “conduzione famigliare” e si inserisce nel solco di un argomento sociale rilevante, quello dell’inclusività e della lotta al razzismo: “Siamo un gruppo ristretto che tira la carretta, pochi ma buoni. Investiamo noi nella squadra: trovare sostegno qui non è semplice. Siamo giovani, non abbiamo una storicità, perciò investiamo sperando che in futuro si possano trovare partner”.

“La nostra squadrà è composta per metà da italiani e per metà da stranieri. Straniero tira straniero ed è bello, ma talvolta ci penalizza. Abbiamo tanti africani arrivati da poco e altri sono qui da più tempo. Il razzismo c’è, in campo. Nel primo anno ci furono tanti episodi di insulti, da parte di avversari e arbitri, quest’anno è andata meglio. Credo che con il tempo le cose potranno solo migliorare. Per noi l’importante è stare bene insieme e avere un obiettivo comune”.

Al momento la progettualità riguarda totalmente la prima squadra: “Costituire un settore giovanile ora non è possibile perché non abbiamo spazi. Ci piacerebbe averlo, in futuro. Calcinato è casa mia e al di là della comodità mi piace vivere qui, c’è un bel centro sportivo. Stiamo lavorando per migliorare ulteriormente la società, c’è un grande potenziale. Dobbiamo avere molta pazienza e fare un passo alla volta”.

L’unione con altre realtà del territorio potrebbe facilitare la crescita? “Non c’è il clima giusto. È più facile che collaborino Calcinato e Calcinatello. Sarebbe una buona idea, dovrebbero pensarci, un po’ di aria fresca non farebbe male e allo stesso tempo a noi farebbe comodo la loro esperienza. Da soli è ovviamente più difficile”.

L’annata sportiva 2021-2022 ha portato in dote un buon sesto posto nel girone B di Terza Categoria: “Per noi è stata la prima vera stagione, siamo andati addirittura oltre le aspettative. Dobbiamo ripartire da qui e alzare l’asticella per provare a puntare ai playoff. Fondamentale è aggiungere nuovi profili per aumentare la qualità del gruppo, che è molto giovane. Serve esperienza in campo ma anche nello spogliatoio. In questa categoria vince il gruppo e serve un mix tra giovani e adulti. Miglioreremo l’organizzazione societaria e la rosa. Si parla sempre di dirigenti e allenatori, ma anche magazzinieri e volontari sono fondamentali: vogliamo rafforzarci anche su quel fronte”.

La condivisione dell’esperienza è da gestire con cautela quando si è marito e moglie: “Quando si perde c’è delusione. Io cerco sempre di stimolare la reazione: capire gli errori e dove migliorare per crescere. In casa poi calcio e lavoro non devono influenzare la serenità famigliare, in particolare adesso che è arrivato il nostro primogenito”.

Accanto al calcio c’è anche una professione messa a dura prova nell’ultimo biennio pandemico: “Mi occupo dell’organizzazione di eventi e matrimoni. Dopo due anni di stop ho patito, non poter lavorare è peggio della disoccupazione, ma ora si lavora bene, soprattutto d’estate, quando il calcio è fermo. Sto recuperando il terreno perduto”.

Le responsabilità non preoccupano la vicepresidente: “Di fatto sono già io il riferimento. Mio marito gioca se se la sente e può fare dirigente, ha 30 anni. La mia esperienza imprenditoriale sicuramente è utile, i settori sono diversi, ma è ugualmente importante saper organizzare le linee guida e seguirle, soprattutto quando ci sono di mezzo tante persone”.

I temi sociali sono all’ordine del giorno, dalle prospettive femminili al problema sempre attuale del razzismo: “Per aprire il calcio maschile alle donne occorre un cambio di mentalità. Conosco tante donne che hanno potenziale, ma non è semplice stare sotto a certi occhi e a quella mentalità che è considerata normale. Di solito le donne che entrano fanno le segretarie, ma credo possano fare altro. Come va con i ragazzi della squadra? Ti trattano in modo diverso. Con la nostra sensibilità però si comunica anche meglio. All’inizio temevo l’impatto, anche perché c’erano calciatori più grandi di me, ma vedo grandi risultati”.

“Per me l’Italia è casa. Se tornassi in Albania mi sentirei straniera. Integrarsi non vuole dire annullarsi, ma arricchirsi con una nuova cultura e rispettarla. In Albania ci sono moltissimi italiani e stanno arrivando persone anche da altri paesi. La vicinanza geografica ha aiutato, io problemi non ne ho avuti, per me è stato facile. Ad ogni modo vedo ancora molta ignoranza verso alcune persone straniere. Nel calcio non devono esistere discriminazioni, si gioca lo stesso sport e si seguono le stesse regole, gli stessi obiettivi. Il calcio non può dare spazio al razzismo. In questo sport possiamo sentirci tutti uguali”.

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