Dal Corriere della sera-Brescia
Lorenzo Tassi è tornato a casa. Non ha nemmeno 30 anni (li compirà il prossimo 12 febbraio), ma sembra che abbia già consumato, esaurito la sua carriera calcistica. Sembra, in effetti, che di carriere ne abbia vissute più di una. Con l’ingaggio estivo del Castiglione di Eccellenza – società mantovana geograficamente ma bresciana nel dna, leggendo i nomi di dirigenti e giocatori – l’ex enfant prodige ha chiuso definitivamente con le prospettive di professionismo, cambiando rotta di vita. Il calcio rimane la passione di sempre, ma accanto al pallone c’è ora una racchetta, anzi, una pala, da padel. Sullo sfondo, la casa di famiglia. Brescia, Bovezzo nello specifico, mamma Rosanna e il fratello Matteo, anche lui calciatore dilettante.
«Mi mancava l’aria di casa – racconta il calciatore cresciuto nella Voluntas Brescia di Roberto Clerici –. Ho viaggiato tanto, sono tornato anche per comodità. Vivo a Collebeato con la mia compagna, lavoro a Brescia e Bovezzo è ora molto più vicino». A metà settembre il primo gol con la maglia dei «mastini», nel 3-1 interno col Darfo Boario. «Ho accettato la proposta del presidente Andrea Laudini per avvicinarmi a casa e perché conoscevo alcuni ragazzi, tra cui Emanuele Bardelloni e Nicolò Lauricella. Inoltre mi hanno permesso di non lasciare il mio lavoro di istruttore di padel». Il pallone non è l’unico amore sportivo. «Fin da bambino appena arrivava l’estate uscivo dal campo da calcio ed entravo in quello da tennis, ci giocavo a tutto spiano. Il Covid mi ha avvicinato al padel, ho constatato che mi riusciva bene e ho investito tempo e soldi per diventare istruttore Fit».
Il nome Tassi attiva un riflesso incondizionato di memoria: è il nome che fece Gino Corioni definendolo «nuovo Baggio» quando Lorenzo aveva appena 15 anni. A 16 e 99 giorni l’esordio in Serie A, Brescia-Fiorentina 2-2, in panchina Iachini, ingresso al 32’ del secondo tempo per rilevare Antonio Filippini. Sembrò un passaggio di consegne. Da lì il passaggio all’Inter, poi l’attesa del momento della piena rivelazione. Che non arriverà mai. Arriveranno invece tanti anni in Serie C, in giro per l’Italia. Prato, Savona, Avellino, Feralpisalò, Vicenza, Arezzo, Vis Pesaro. Post pandemia la D al Pont Donnaz (Val d’Aosta) e alla Sambenedettese, l’anno scorso la discesa in Eccellenza, a Pavia.
«Dovessi fare un bilancino, alla soglia dei trent’anni, direi che sì, le etichette mi han fatto più male che bene, senza dubbio. In queste condizioni finisce che hai già fallito in partenza, anche nella C di provincia. Non per cercar scuse, ma hanno influito anche gli infortuni e le tante vicissitudini delle società in cui ho giocato: a Savona partimmo da -16, al Vicenza a fine anno ci lasciarono tutti a piedi, la Samb fallì, ad Arezzo una delle mie migliori stagioni fu interrotta dalla pandemia. A Pavia ci sono andato perché mi aveva chiamato Benny Carbone, che conoscevo dai tempi dell’Inter, ma è stata una follia, facevo avanti e indietro da Brescia. A quel punto ho ragionato su cosa mi convenisse fare. Le categorie mi interessano relativamente, a Castiglione le condizioni ideali».
Il ragazzino prodigio è diventato uomo, formandosi lontano da casa (fu vicinissimo al ritorno al Brescia nella sessione invernale 2016), soffrendo quattordicenne la scomparsa di papà Paolo e pochi anni fa quella del mentore Clerici, per trovare oggi una stabilità inseguita a lungo. Ma di definitivo non c’è nulla, figuriamoci il futuro. «Non arriverò a giocare fino a 40 anni, troppe cicatrici. Magari farò un patentino e lavorerò nell’ambiente, sono malato di calcio e qualche contatto la mia carriera me l’ha fornito. Ma ora non ci penso. Ora ci sono il Castiglione, il padel, la famiglia, compreso Matteo, due anni più grande di me, mio fratello e migliore amico. La domenica, se potevo, lo seguivo su tutti i campi di provincia, anche quando giocavo a 500 chilometri di distanza. Ora mi verrà più comodo».