Rass.stampa - Gazzetta - Hubner: "Faccio il nonno. Fumavo al 45', non bevevo la domenica"

Dalla Gazzetta dello Sport

Nelle verdi praterie della Serie A, lo chiamavano Tatanka. Correva a testa bassa, testardo e irresistibile, come i bisonti. Venuto su in una terra di confine, a Muggia, Trieste, case operaie, padre che lavorava in un cantiere navale, lì dove la Jugoslavia era a un tiro di SuperTele. Nato operaio, panettiere da adolescente, quindi montatore-fabbro di infissi in alluminio. Nello snodarsi di una carriera fuori catalogo, lo solleticava l’ipotesi di aggiustare il suo destino, come si avvita un bullone allentato. Ha cavalcato lungo gli Anni 90 segnando decine di gol in provincia tra Fano e Cesena, Piacenza e Brescia. È atterrato in Serie A a trent’anni e no, non voleva mica essere un duro, gli bastava fare il suo mestiere, quello del gol. Sono più di 300 quelli seminati in carriera. Ha vinto il titolo di capocannoniere in Serie A quando aveva 35 anni, sfoggiava un pizzetto vintage e teneva ginocchia che urlavano la loro fatica: aveva già in bacheca i titoli di miglior goleador di Serie B e C, due righe d’oro su un curriculum cui ha messo la parola fine quando aveva già scavallato da un po’ i quarant’anni e ancora si divertiva a fare il Tatanka nei dilettanti.

Sfatiamo una leggenda o confermiamola: è vero che fumava negli intervalli delle partite?
«Sì è vero, due-tre tiri in bagno, quando l’allenatore aveva finito di darci le indicazioni. Fumavano anche un sacco di compagni, di nascosto. Io non ho mai avuto problemi a dirlo, lo sapevano tutti. Anche perché ho sempre fatto vita da atleta».

I grappini e le birre?
«Poteva capitare in settimana, mai nel giorno della partita, non scherziamo». Dove e quando nasce Tatanka? «Ai tempi di Cesena, primi Anni 90, quando ho cominciato a sentirmi un professionista. Avevo 25 anni e prima avevo giocato solo in Serie C a Fano. Tatanka come il bisonte, perché quando partivo in contropiede – che era la mia specialità – avevo quel modo di correre, a testa bassa, un po’ ingobbito, dritto verso la porta avversaria a caccia di gol».

E i gol in carriera sono stati più di 300 in tutte le categorie: dalla Serie A all’Interregionale.
«Non ho mai tenuto il conto, ma sì, direi che ci siamo. Per ogni gol dovrei ringraziare il compagno che mi ha messo nelle condizioni di farlo. Mi fanno sorridere quelli che si pavoneggiano, non bisogna mai dimenticare che il calcio è un gioco di squadra. E la lista di chi mi ha dato una mano è lunghissima, da Dolcetti a Scarafoni, da Poggi a Stroppa, giocatori eccezionali».

Chi è stato il compagno di squadra più forte con cui ha giocato?
«Ho giocato con Baggio e Pirlo, direi che non mi è andata male (ride ). Andrea aveva poco più di sedici anni, era un talento purissimo; poi l’ho ritrovato nel Brescia di Mazzone, quando c’era anche Baggio. Robi è Robi, non serve aggiungere altro. Un campione eterno ma soprattutto un uomo speciale, umile. Quando arrivò a Brescia il capitano ero io, ma avevamo capito tutti che era giusto che la fascia la tenesse lui. Lo comunicai a Mazzone e Corioni, poi andai da Robi e gli dissi: “Questa è la fascia, è tua”. Mi abbracciò. Poi gli dissi: “Però i gol continuo a farli io”. E lui mi rispose ridendo: “Tranquillo, i gol sono tutti tuoi”».

Il difensore più forte che ha affrontato?
«Nesta, nettamente. Un fenomeno assoluto. Ogni suo intervento era di una pulizia unica. Non faceva mai fallo. Gli altri difensori li sentivo addosso, Samuel, per dire, stava 90 minuti a tirarmi la maglietta. Di Nesta non ti accorgevi nemmeno, era un fantasma, mi stava a mezzo metro, poi quando arrivava il pallone giocava d’anticipo e mi fregava».

Lei è stato l’emblema del cannoniere-operaio. Tra l’altro: l’operaio l’ha fatto davvero. Se non avesse fatto il calciatore, come sarebbe stata la sua vita?
«Avrei montato infissi e sai cosa ti dico? Mi sarei divertito. Mi piaceva entrare nelle case, togliere gli infissi vecchi, mettere quelli nuovi. Mi dava un senso di pace, di cose fatte bene. La manualità mi è rimasta, sono bravo a fare lavoretti in casa».

Chi tifava da ragazzino?
«Ero tifoso dell’Inter, mi piaceva da matti Kalle Rummenigge: la sua corsa potente, il tiro fortissimo, le acrobazie».

C’è un giocatore in cui oggi rivede quelle che erano le sue caratteristiche?
«Il Belotti che giocava nel Torino aveva la mia stessa attitudine fisica, la stessa caparbietà nel credere che ogni pallone potesse rappresentare un’opportunità. Il Gallo mi piaceva, poi si è un po’ perso, spero che al Benfica faccia bene».

Quale è stato l’allenatore con cui si è trovato meglio?
«Ne ho avuti tanti, molti bravi. Guidolin in C a Fano, Vicini, Mazzone, Novellino. Con Sonetti, nell’anno in cui con il Brescia conquistammo la promozione in Serie A, mi sono divertito. Al sabato mattina ci faceva fare delle partitelle agguerritissime, che dovevano esaurirsi in venti minuti e duravano anche il triplo, finché ad un certo punto Sonetti fischiava e ci diceva: basta così, che ridendo e scherzando domani dobbiamo giocare ancora».

È vero che Paolo Maldini le chiese la maglia?
«Sì, dopo un Brescia-Milan, venne da me e ce la scambiammo, come capita di solito. Una bella soddisfazione, era pur sempre il grande Maldini».

Com’è la vita di Dario Hubner oggi?
«Vivo a Passarera di Capergnanica, vicino a Crema. Ho due figli grandi, faccio il nonno, passo le giornate con i miei due bellissimi nipoti, Sophie, 3 anni, e Edoardo, che ha 9 mesi. D’estate vado a funghi, quando posso a pescare sull’Adda, mi diverto a fare gite in moto con gli amici. Il calcio lo guardo, certo. Ma si gioca troppo, a tutte le ore, va tutto così in fretta che fai fatica a orientarti».

Quale è il ricordo più bello della carriera?
«Sono tanti, davvero, sono stato fortunato. Le salvezze, i titoli di capocannoniere, qualche gol, certi momenti di gioia con i compagni. Però se devo scegliere prendo quello del debutto in Serie A: 31 agosto 1997, Inter-Brescia a San Siro, era l’Inter di Ronaldo il Fenomeno, c’erano 70.000 spettatori, una domenica bellissima. A venti minuti dalla fine feci gol, con un pallonetto. Ma fu un’illusione, poi il Chino Recoba ribaltò tutto con una doppietta. Avevo trent’anni, a quell’età le cose te le godi con più consapevolezza: ero a San Siro, avevo appena fatto gol, potevo forse chiedere di più?»

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