“Oggi il mio sogno, a 51 anni, è semplicemente quello di fare l’allenatore e il mental coach, i mestieri che amo. Le ritengo due strade avvincenti. Da un lato mi piace stare in campo; dall’altro incontrare persone o aziende per sessioni private. Punto ad essere fonte d’ispirazione per gli altri. Trovo le più grandi soddisfazioni nel guidare chi ho di fronte in un percorso di crescita. C’è tantissima gente che si pone limiti, si sottovaluta, invece ogni essere umano è unico e vale tantissimo”.
Si è concluso con questo auspicio per il futuro il nostro incontro con Antonio Filippini. Definirlo una semplice chiacchierata, conversazione o intervista sarebbe riduttivo. Con il gemello numero 18 siamo andati in profondità, dimenticando taccuini e microfoni per fare emergere storie, aneddoti e pensieri, spaziando tra calcio e vita.
“Sai cos’è che rende il calcio così speciale? Che in una squadra uno più uno fa tre. L’unione delle forze genera qualcosa di speciale. Il gruppo fa davvero la differenza perché siamo molecole che, messe insieme, creano un prodotto straordinario. In queste alchimie le dinamiche mentali diventano decisive e vanno esportate nella vita di tutti i giorni”.
Le figure di allenatore e mental coach possono restare distinte, oppure fondersi. “Essere primo allenatore per me non è indispensabile. Mi piacerebbe molto far parte di uno staff in cui potermi focalizzare sulla sfera mentale dei giocatori e del mister, figura che ha bisogno di supporto costante sia nei momenti difficili sia in quelli in cui gira tutto bene. Esaltazione e depressione, nel calcio, hanno confini sottili. Va detto che si tende spesso a separare il calciatore o l’allenatore dall’uomo. È un grave errore perché la persona è una. È impossibile separare vita professionale e privata, per questo seminare serenità è fondamentale. Quando lo stress comanda e l’ambiente diventa cupo si rende meno, è inevitabile. Il fisico, quando subentrano pressione e paura, tende a bloccarsi e ci si isola. Sono dinamiche soprattutto maschili. L’uomo è più restio a farsi aiutare rispetto alla donna”.
Filippini scoprì sulla sua pelle, da calciatore, i benefici dell’allenamento mentale. “Giocavo nel Brescia e vivevo un momento magico. Ero titolare nella squadra della mia città, che era all’apice della sua storia calcistica. Accanto a me c’era un certo Roberto Baggio. Ero al settimo cielo, ma volevo migliorarmi ulteriormente. Conobbi un mental coach e lo seguii per due anni. Le mie prestazioni ebbero enormi benefici. Andavo fortissimo, giocavo bene, segnavo più del solito. Tutti si accorsero di questo salto di qualità. Capii l’importanza del lavoro mentale, mentre fino ad allora avevo lavorato solamente sugli aspettavi fisici, tecnici e tattici. Iniziai a studiare la mente, scoprii il mondo della crescita personale e della motivazione, che ormai mi appartiene da più di vent’anni”.
A pochi metri da Antonio, in mezzo al campo, lasciò un segno importante un uomo che, anni dopo, avrebbe rivoluzionato, da allenatore, il mondo del calcio. Un calcio che va oltre piedi e pallone, un calcio figlio del pensiero. “Era evidente che Pep Guardiola sarebbe diventato allenatore. Aveva già in mente il calcio che voleva proporre. Discuteva spesso con Mazzone, perché non gradiva essere scavalcato dal pallone. Il mister, però, aveva una filosofia diversa: voleva palla sopra per la punta, Toni o Tare. Guardiola, invece, la voleva nei piedi. A noi compagni dava parecchi consigli. Proponeva concetti come il condurre per attrarre, che allora erano totalmente innovativi. Ci diceva: ‘Io tengo palla e la porto, poi quando qualcuno mi attacca la gioco al compagno smarcato. Voi datemela anche se ho un avversario vicino alle mie spalle perché se è lì significa che altri dei nostri sono liberi’. Pep da allenatore è stato un vero maestro. Si è posizionato in continuità con Crujiff e Sacchi, che senza dubbio l’hanno ispirato, ma ha aggiunto tanto, trasformando anche il portiere in giocatore attivo. Anche per i difensori è cambiato tutto. Il possesso palla, o tiki taka, è un marchio di fabbrica, ma lo è pure la riaggressione immediata”.
E in quest’ambito i gemelli Filippini, secondo Guardiola, erano un prototipo da esportare. “Nel suo libro ha scritto proprio questo. Dice spesso a me e ad Emanuele che quando venne in Italia rimase sbalordito da questa nostra abilità nella reazione alla perdita del possesso palla. Scherzando, ma non troppo, sostenne che eravamo perfetti per il calcio aggressivo del suo Barcellona. Per lui eravamo moderni già a all’epoca”.
Caratteristiche uniche, che a inizio carriera crearono qualche imbarazzo sui campi di allenamento delle Rondinelle. “Un tempo quando perdevi palla il primo input degli allenatori era compattarsi, abbassare il baricentro della squadra e temporeggiare. Noi eravamo diversi, volevamo aggredire. Agli esordi in prima squadra andavamo con ferocia su tutti i palloni. Bonometti, Giunta, Rossi e Battistini si lamentavano del nostro modo di giocare. Lucescu pose fine alle questioni dicendo che era la nostra natura, che eravamo fatti così. Volevamo la palla, ci smarcavamo, andavamo in uno contro uno, scambiavamo sul corto, giocavamo in movimento continuo. Potevamo fare i quinti, i terzini, gli interni. Eravamo dei veri jolly”.
Attitudini che, oggi, influenzano il pensiero di mister Antonio Filippini. “Sono per un modello che porti al dominio del gioco, per un calcio propositivo, di movimento e pressione. Mi piace De Zerbi, ma sono più flessibile, anche perché nelle mie categorie (C e D) devi modellare maggiormente le tue idee sui giocatori che hai. Spesso ci si divide tra chi ama un calcio ragionato e chi è più pragmatico. Ognuno ha i suoi gusti e le sue convinzioni. È chiaro che più sei malleabile più squadre puoi allenare. Penso che Roberto sia uno che non scende a compromessi, altrimenti per le doti che ha sarebbe già stato chiamato alla guida di una big”.
Tutto questo senza dimenticare che anche i club e le piazze hanno uno specifico dna. “È proprio così. Allenare la Juventus o il Barcellona non è la stessa cosa. E il Barcellona, a sua volta, ha un’identità profondamente diversa dall’Atletico Madrid. Io ho vissuto il calcio nella nostra capitale: Roma e Lazio sono due facce opposte della stessa medaglia. È così, non sono solamente le persone ad avere un’anima, ce l’hanno anche le società. La storia incide. Vale anche per Brescia. Questa città e la sua squadra hanno cromosomi di un certo tipo, che forse il presidente Cellino non ha saputo decifrare. Ha commesso errori nella postura da adottare nei confronti dei bresciani. Non ha tenuto conto della nostra identità. Non è riuscito a calarsi nella mentalità di un popolo che lavora 20 ore al giorno e che vuole fatti, programmazione, serietà, concretezza”.
L’opinione di Filippini sul Brescia odierno è quella condivisa dalla maggioranza dei tifosi. “Tempi duri, si soffre. In questi anni c’è stata troppa instabilità. La media di tre allenatori cambiati a stagione è deleteria. C’è troppa fretta, qui e altrove. Nel calcio di oggi si tende a sopravvalutare i calciatori e a svalutare il lavoro dei tecnici, che sono sempre i primi e spesso gli unici a pagare. Vedere il Brescia così in difficoltà fa male. In futuro sarebbe bello trovare una proprietà che sappia mixare gli obiettivi del business alle ragioni del cuore. La salvezza? Sono molto preoccupato. L’ambiente è determinante e qui mi sembra molto cupo”.
Parole di una bandiera, che anche il presidente Corioni riteneva tale. In un’intervista a CBS del 2010, fantasticando sull’ipotesi di un ritorno in biancoblù di Andrea Pirlo a fine carriera ci disse: “Fare una scelta come quella di Antonio Filippini non è da tutti”. A Filippini brillano gli occhi: “Credo che ognuno abbia il suo percorso. Non mi sento più o meno bandiera di altri, ma quelle parole del pres sono motivo d’orgoglio. Il Brescia è nella mia anima, quella era molto più di una maglia, anche per Corioni. Il ricordo più bello che ho di lui risale alla salvezza conquistata all’ultima giornata contro il Bologna. Era in panchina, travolto dalle emozioni. Piangeva come un bambino per quella vittoria, ma dietro c’era tutta la sofferenza dei mesi precedenti, segnati dalla perdita di Vittorio Mero. Quel giorno si lasciò andare. Per me fu un momento molto significativo, perché vidi la persona dietro al presidente. Non c’era più la figura istituzionale, ma ossa, carne e cuore. Lo abbracciammo come si abbraccia un papà. Tra l’altro lui era molto legato al mio. Spesso s’incontravano al torneo di Polpenazze e andavano a mangiare insieme”.
A proposito di lacrime, chi conosce Antonio non può dimenticare il dramma che lo colpì durante la pandemia, quando perse l’adorata mamma. “È stata molto dura. Occorre tempo. Ogni giorno penso a lei e a quegli istanti così crudeli. Ritengo che non meritasse di morire da sola, e dopo cinque anni soffro ancora per questo, ma arrivi al punto in cui impari a convivere con il dolore. L’importante è arrivare alla consapevolezza del fatto che soffrire è giusto. Rifiutare il dolore e allontanarlo è inutile, ti fa ancora più male. Chi ha amato, soffre. Questo significa che il percorso con la persona che ti ha lasciato è stato bello, significativo, che si è costruito qualcosa di importante. L’accettazione di questa nuova condizione, poi, è importante. Come nel calcio. Se sbagli devi accettarlo al fine di essere pronto per la palla successiva. Le proprie emozioni vanno accettate sempre, mai rifiutate”.
E tra le più belle di una vita ci sono quelle rintracciate negli occhi di Emanuele, come in uno specchio. “Trovare lo sguardo di mio fratello in tantissimi momenti della vita è stato qualcosa di fantastico. Girarmi ed averlo al mio fianco in tanti spogliatoi è stato un vantaggio enorme. Significava condivisione, possibilità di ambientarsi più velocemente in qualsiasi contesto. A Palermo, ad esempio, fu così. Per me Emanuele è sempre stato un riferimento, un supporto, un sostegno. In una parola direi una garanzia”.
Se tutto questo non bastasse c’è ancora di più, perché il calcio è talmente potente da arrivare perfino ad estendere i legami famigliari e, strada facendo, Antonio Filippini ha scoperto di avere un fratello in più. “Vittorio Mero era proprio questo per noi. Io ed Emanuele soffrimmo molto dopo la sua scomparsa. Eravamo legatissimi. La squadra superò quello shock ponendosi come obiettivo una salvezza da dedicargli, da conquistare a tutti i costi. Ci focalizzammo esclusivamente sul campo. Al cospetto di quella tragedia ogni problema sembrava una stupidaggine. C’era un’unione d’intenti straordinaria, eravamo affamati, anche per un’altra ragione: volevamo mettere le mani sul premio salvezza per donarlo interamente al figlio di Vittorio, che una volta maggiorenne avrebbe potuto svincolare quel denaro. L’ho incontrato qualche anno fa. È stato emozionante, credo che per il nostro Brescia sia stato il trofeo più luminoso da mettere in bacheca”.
Bruno Forza