Rass.stampa - Gazzetta - Maifredi: "Creai il Real Brescia, ero disoccupato. E ho allenato la Juve"

Dalla Gazzetta dello Sport

Telefono fisso. Anno 1988. Casa Maifredi. «Buongiorno signora, sono Giampiero Boniperti, vorrei parlare con Gigi». Pausa. «Sì. Boniperti. E io sono Grace Kelly». Bum. Giù il telefono. «Tornai a casa e mia moglie mi disse di aver fatto un guaio…». E questo è solo l’inizio di una vita vissuta sul tagadà, partendo da rappresentante fino alla Juve passando da Bologna e tanto altro. «Io dormo bene tutte le notti, non ho tic, ogni sera esco e anzi dopo mi ritrovo con venti amici a mangiare lumache: sempre stato a posto con me stesso. Sono Gigi Maifredi da Lograto, col papà che faceva l’autista e la mamma che stirava a casa altrui».

E con Boniperti come finì? «Mi richiamò più tardi e mi diede appuntamento il giorno dopo alle 16. Gli dissi che avevo allenamento così anticipammo alle 11. Gli ruppi una sedia Luigi XVI, stetti un’ora a parlare con lui senza appoggiarmi mai. Drammatico. A un certo punto entra l’Avvocato. “Avvocato, sarà banale ma conoscerla è un onore”. Mi vogliono e io gli dico che faccio questo mestiere per arrivare ad allenare la Juve. Il giorno dopo racconto tutto a Corioni, che però va in crisi. Così decido di restare a Bologna, lo dovevo a lui e alla città. Mi dissi: se me la saprò meritare, mi richiameranno. E così poi è successo».

Gigi, lo spieghi a chi sogna: come si passa da rappresentante di champagne a diventare l’allenatore della Juve e di Baggio? «Quando giocavo ero una mezzala. Fantasia, la stessa che ci mettevo da rappresentante perché escogitavo di tutto, poi fisico, visione. Ero un Rijkaard, potevo essere nato nel Suriname. Un giorno vengo preso dal Brescia e giochiamo contro il Travagliato. L’allora mister, Messora, mi fa: “Ragazzo, devi rincorrere il 9”. Gli dissi “Mister, guardi che io sono mezzala”. E mi dà la maglia numero 5. Quel nove non l’ho mai preso. Un incubo. Da quel giorno mi dissi che, se avessi fatto l’allenatore, beh, una cosa così non l’avrei fatta. Comunque un giorno sono al bar, disoccupato. E creo la mia squadra, il Real Brescia, io tifoso marcio del Real. Ero presidente, magazziniere, allenatore. Era il 1978-79, in Terza categoria, figuroni. Da lì è nato tutto. La prima zona? La feci al Pontevico».

Prima lei o altri? «Vedere il Milan di Sacchi era una lezione didattica pazzesca. Arrigo è stato super. Ma lui giocava col 5-4-1 e quando lo chiamarono al Milan fu quasi obbligato a giocare a 4. Così mandò osservatori a vedere i miei allenamenti e quelli di Zeman. Sacchi è arrivato dopo…». Vuol parlare adesso di Motta o dopo? «Le racconto come arrivai alla Juve. Facciamo il corso di Coverciano io, Tardelli e Gentile. Dovevamo seguire la Germania, che va a giocare a Torino. All’entrata Marco e Claudio trovano i loro pass, io vengo preso da un addetto: “Lei venga con me, è invitato nei box”. Entro: c’erano Agnelli, Kissinger, i presidenti di Aston Martin e Mercedes. Faccio l’errore di dire a Kissinger “Nice to meet you” e lui pensa che io sappia l’inglese. Sapevo solo dire “yes”, “penalty”, “blue jeans”. Così quando mi parla io dico sempre yes senza capire nulla di nulla: yes yes… A un certo punto faccio: “Mamma mia che serataccia”. Un signore vicino mi guarda ed era il segretario di Agnelli. Parlava italiano ovviamente. Finisce la gara e 4-5 macchine ci aspettano fuori. Poi un aereo a Caselle: in quell’aereo ci siamo, in fondo, io, Agnelli e ancora Kissinger. “C’è un contratto triennale per lei”. “Avvocato, io firmo sempre per un anno: se non va bene sono io ad andarmene”. “Allora lei abbandona la nave mentre affonda”: prima stoccata. Mi chiamava alle 7 e diceva “Come sta il suo figlietto?”. Baggio.

Quando decisi di andare via, perché volli andare via io, passeggiammo e me lo chiese: “Perché se ne vuole andare?”. Non mi sentivo a mio agio, ero abituato a comandare». E veniamo a Motta: cosa la accomuna alla sua esperienza finita pochi giorni fa? «Forse, ed è una sensazione, che lui come me si è sentito un Dio in terra arrivando alla Juve. Ma io avevo 14 giocatori, io andavo per cambiare il modo di pensare calcio e lui per migliorare un calcio che già c’era. Io venivo da 6 anni strepitosi: e magari pensavo di essere più avanti degli altri. L’accostamento fra me e Motta è semplicemente banale. Alla Juve volevo fare il 4-3-3. Hassler a destra con Casiraghi e Baggio con la “11”, solo che firmò un contratto in cui era prevista solo la 10. Il mio centrocampo ideale: un play, un Pecci, e due interni. Se mi avessero preso Dunga, su consiglio di Robi…».

Con Baggio vi vedete? «Ultimamente meno, ma Robi è un amico. Lui sa che se mi chiama a piedi in autostrada io vado a prenderlo. E così il contrario. Io e lui in ritiro avevamo le stanze vicine. Ci trovavamo a chiacchierare sul terrazzino. Sognavamo di andare a fare una finale di Intercontinentale in Giappone. Le ricordo questo: prima della seconda gara col Barça, si sapeva già che sarei andato via, in quel momento ero uscito dallo spogliatoio ed entrò Agnelli. “Sappiate che tutto quello che è stato detto potrebbe essere cancellato stasera con una grande gara”. Robi me lo raccontò e segnò: se ripenso ai gol sbagliati…». Gigi, qual è stato il suo errore più grande? «Tornare a Bologna. Non c’ero con la testa. Ma il mio primo Bologna era uno spettacolo: una cosa sola. Un’estate in ritiro, grazie anche a Mingardi, mettemmo su uno spettacolo col Musichiere, una pièce teatrale, alcuni giocatori vestiti da donna. Che bellezza, che anni, che sorrisi. L’inizio non fu facile: a Casteldebole, quando arrivai, lanciavano pietre. Così, sapendo che i tifosi si erano radunati per fare una grigliata, alle 22.30 andai da loro. Dateci tempo. Anche solo la gara di Coppa Italia. Battemmo il Verona di Bagnoli». Siccome è sempre stato avanti, ce ne dica una. «Due: il Bologna di oggi mi piace un sacco. Due: se la Juve va all’attacco di Pep Guardiola, beh, non solo lo prende, ma sistema il futuro».

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