dal Giornale di Brescia
Sì, il peso della maglia. Sì, il dover dimostrare di poter essere profeta in patria. Sì, la responsabilità di rappresentare una città attraverso un progetto che riunisce e riunirà il gotha dell’imprenditoria. Ma tutto questo è niente «rispetto alle pressioni- ride- che mi mette la mamma. È la più critica, mi contesta anche i cambi…». Aimo Diana lo sa: di «mamma Rina» che lo aspettano al varco – possibilmente più che per rimproverarlo per offrirgli un buon caffé o mettergli nel piatto una meritata cotoletta – d’ora in avanti sarà lastricato il suo percorso professionale. Nella storia di mister «D» si mescola tutto. C’è una carriera fin qui costruita in serie C a forza di gavetta che ha portato a risultati conditi da record con solo mezza stagione (a Vicenza) sbagliata. Quindi nella storia c’è, prima di tutto, il professionista. Ma come si può, in un caso delgenere, scinderlo dall’uomo? Lui, nel Brescia ci è nato e cresciuto. E Brescia, nonostante la vita lo abbia portato a metter su famiglia altrove, è sempre rimasta il suo centro di gravità permanente.
Diana, questo è un sogno che si realizza?
«Sì. Noi siamo tutti molto felici dell’opportunità che il nostro presidente ci ha dato. A noi il compito tecnico di dimostrare di essere all’altezza: per quanto mi riguarda è un’esperienza incredibile, di grande emozione, di grande felicità e anche di grande responsabilità. Me la sento tutta».
Sarà un ritiro particolare?
«Lo viviamo da uomini di calcio e di campo. Abbiamo la certezza di una metodologia e di quello che vogliamo fare. Io e gli altri bresciani dello staff ci sentiamo dei garanti e a questi ragazzi dobbiamo raccontare cosa significa essere in una città così, con una tifoseria importante. Ma gente come me e Filippini non deve fare niente di particolare: la nostra brescianità è manifesta nel modo di parlare, nell’esprimerci anche in dialetto, nel modo di fare. In tutto questo però siamo allenatori e per noi la priorità è il campo. L’unico pensiero è riuscire al costruire una squadra che sia convincente, vincente e che faccia innamorare la gente. Il calcio è gioie e dolori: noi faremo di tutto per regalare le prime».
A proposito di dolori: lei è figlio del Brescia, può capire cosa hanno provato i tifosi…
«Chi mi conosce sa del mio rapporto profondo con le mie radici. Qui ho la famiglia, gli amici più cari… C’è tanto da fare, c’è da ricostruire. Vogliamo provare a ridare qualche certezza anche attraverso una idea di calcio. Faremo cose buone, altre volte sbaglieremo: ma sapremo farci voler bene».
Come descriverebbe la sua idea di calcio?
«Al di là del modulo che parte dalla base di una difesa a tre, mi piace cercare di avere una squadra dominante, ma con equilibrio che è sempre una grande chiave. Mi piace anche che i giocatori si prendano qualche “licenza”, che provino la giocata, che cerchino di pensare in autonomia dentro i principi che do loro… Ma preferisco che parli il campo in un campionato che conosciamo bene ed è difficile. Il presidente è stato molto chiaro: progetto triennale. I percorsi devono essere chiari così come le tempistiche, poi è ovvio che tutti abbiamo voglia di vincere e di accorciare questi tempi».
Con la Reggiana lei ha vinto un campionato, quali sono gli ingredienti?
«Forza, coraggio, tecnica, tattica e tanta coesione. Io credo che sia importante trovare una buonissima alchimia tra di noi. Poi servono progetto e programmazione. Chiedo anche un po’ di pazienza, ma vedrete quanto lavoro metteremo dentro».
Lei è molto focalizzato sul campo, ma come fa a schermarsi dalle emozioni?
«Io devo saper fare l’allenatore prima di tutto. Però a dire il vero non voglio nemmeno schermarmi perché l’emozione ce l’ho e voglio che si avverta. Io sento una frase in dialetto e mi ci riconosco perché sono in mezzo al mio popolo, alle persone che mi hanno visto crescere come calciatore e che ora mi osservano da allenatore. Tutto questo lo sento».
Non la spaventa l’idea di dimostrare di poter essere profeta in Patria?
«Il mio percorso è quello che mi dà la forza di affrontare questa bellissima sfida. Penso al fatto che con la mia esperienza e la mia gavetta mela sono meritata e guadagnata: mi ripeto questo. Mi attacco alle mie certezze, alle mie conoscenze e alla voglia di dimostrare alla mia gente che so fare questo mestiere. Ho inoltre alle spalle persone che non fanno mai nulla tanto per fare: questa storia nuova che è iniziata durerà a lungo. Quando si iniziava a parlare di questa opportunità mi chiedevo “ma se succede? Sarò io l’allenatore?”. Un po’ fremevo perché avrebbero potuto scegliere un altro: non volevo volare con la testa e anche per questo avevo persino paura a informarmi. Ma quando col diesse abbiamo iniziato a parlare di giocatori ho capito che era tutto vero…».
Cosa le ha detto Pasini?
«Sono stato a pranzo con lui prima della cerimonia in Loggia e l’ho visto molto emozionato, felice. Abbiamo parlato del progetto, ha ricordato principi che dobbiamo seguire. Poi lo avete visto anche voi: è un Pasini che sente il momento e infatti ha parlato con anima e cuore. Spero che sia riuscito ad arrivare a tante persone».
Ai ragazzi ha parlato?
«Non più di tanto. Con loro ho ritenuto più opportuno entrare nel merito del lavoro che ci aspetta. Per tutto il resto ci saranno invece i momenti del ritiro». La sua squadra come sarà?
«Un squadra che anche nelle difficoltà non sbanda mai davvero. E che se lo fa poi sa riprendersi. Una squadra propositiva, che ha sempre la percezione del pericolo, ma anche del momento da cavalcare. Una squadra elettrica. Senza paura di provare magari la giocata fine a se stessa, ma che fa innamorare. Posso far uscire il bresciano che è in me?».
Prego…
«Voglio una squadra che “raspa”. Che scava, che vuole “mangiare”. Che deve recuperare il pallone e ripartire e che se sbaglia meriterà comunque l’applauso. Voglio l’anima. Se ho anche l’obiettivo di dimostrare che mi sarei già meritato altre categorie? Io penso che ognuno ha sempre ciò che si merita. Io mi sono dato anche degli schiaffi per scelte non funzionali magari, ho chiare molte cose… Ma ripeto: ognuno è sempre dove merita. Io sono felice dei risultati che ho ottenuto e ora di essere dove sono. Non è mai solo una questione di categoria».
Con la mamma come la mettiamo?
«Dovrò essere anche il suo “garante”, quello di mia sorella e tutti. So che soffriranno, che saranno anche loro più esposti e a questo li ho già preparati. Sono tutti felici e mio figlio che pur non essendo cresciuto a Brescia si sente bresciano mi ha detto orgoglioso “papà godo un botto”»