Joe Taylor e l'Australia: "Ho girato il mondo, ma ora la mia casa è Brescia"

Solo la Coppa del Mondo sa far vivere certe emozioni. Tra l’euforia di un gol fatto e il disarmo di uno subìto, c’è quel senso di appartenenza e condivisione che unisce interi popoli. Mondiale Bresciano nasce con molteplici obiettivi: conoscere le storie di tanti ragazzi di origini diverse che (senza magari che ce ne accorgiamo) calpestano ogni domenica gli stessi campi del nostro calcio dilettantistico; permettere a loro di riavvicinarsi col racconto al Paese d’origine, spesso molto lontano nello spazio e/o nel tempo trascorso senza viverlo; far riemergere dentro noi, bresciani ed italiani, quello spirito mondiale di cui sopra, del quale non facciamo esperienza ormai da 8 anni. Dopo Momo Coly, Cellatica ed il Senegal, facciamo tappa a Vobarno per conoscere Joseph Taylor.

Se pensate che aver fatto un Erasmus di sei mesi a Valencia vi ponga su un qualche tipo di piedistallo di viveur internazionale, vi conviene scendere rapidamente, perché Joe sposta la questione su un altro livello. Joseph Taylor Mountford è un centrocampista offensivo attualmente in forza ai valsabbini di mister Ivan Guerra, nato in Australia nel 1996. Se cercate il suo profilo Instagram (@coachjoeknows), accanto al nome troverete quattro bandierine. Da Sidney a Brescia, andiamo a ricostruire il suo personalissimo giro del mondo.

“I miei genitori sono inglesi di Manchester, mio papà Bill è nato dietro Old Trafford e naturalmente è tifosissimo dei Red Devils. Negli anni ’90 si trasferirono in Australia, io e mio fratello Jake siamo nati e cresciuti a Sidney, fino ai 15 anni. È stato in quel periodo che abbiamo imparato a giocare a calcio, cullando i nostri sogni di diventare professionisti”.

Il calcio non è propriamente lo sport nazionale australiano. Ci sono discipline molto più seguite. Alcune delle quali anche parecchio strane…

“L’origine inglese mi ha indirizzato al calcio, ma ho praticato anche atletica leggera e poi facevo surf! Ero bravino ma non eccezionale, capii presto che non avrei avuto grosse chance. Di altro ho provato qualcosa, tipo il football australiano, ma fisicamente facevo ridere e andava a finire che prendevo un sacco di botte e basta. La fisicità è la caratteristica peculiare degli australiani, nel calcio la soffrivo di meno diciamo. Ho fatto settore giovanile nel Sidney FC, ancor prima ero al Manly United”.

Man UTD!

“Ahah, esatto, stessa abbreviazione dei Red Devils, ma dimensioni un po’ diverse”.

A che livello eri arrivato, prima di lasciare il Paese?

“Ero stato convocato in nazionale Under 15, poi ricordo un tour in Spagna nel quale affrontammo coetanei di Barcellona ed Espanyol: una bellissima esperienza, ma quanti gol che prendemmo! Il cambio di vita fu qualcosa di inaspettato. A mio papà fu proposto un lavoro a Singapore e lui scelse di portare con sé tutta la famiglia. Non sapevo cosa aspettarmi, io e mio fratello ne soffrimmo perché eravamo legatissimi al calcio e ai nostri amici. Ma partimmo, anche perché le prospettive erano che dovesse durare un solo anno”.

E invece…

“Invece non fu così e dovemmo adattarci. Non conoscevo nulla di Singapore, della cultura, della lingua e soprattutto delle squadre locali, ma il mio obiettivo non era cambiato: volevo diventare pro e se fosse servito lo sarei diventato lì. Feci un provino per l’Home United e mi presero nell’academy. Successivamente mi avvicinai al Tampines Rover, una squadra di S-League – la Serie A singaporiana, ora Singapore Premier League -, unico campionato professionistico di Singapore. Lì firmai il mio primo contratto professionistico ed esordii in S-League segnando un record di precocità per uno straniero. Ora il record non è più mio, purtroppo. Ricordo che tutti i miei amici mi presero al fantacalcio singaporiano! Non potei dar loro tante soddisfazioni perché non fui utilizzato molto. Ero nella squadra più forte in assoluto del campionato, io ero il giovane salito dalle giovanili, normale ci fosse poco spazio. Vincemmo la Coppa nazionale ma arrivammo terzi in campionato, non riuscendo a qualificarci alla Champions League asiatica. L’anno dopo me ne andai”.

A metà della tua esperienza a Singapore, tuttavia, c’è stato altro.

“Sì, nel 2013 provai l’avventura inglese. Feci la preparazione estiva con il Wolverampton, il responsabile dell’academy Mick Halsall mi voleva a tutti i costi, ma nessuno mi conosceva e il club fece altre scelte”.

La fermata successiva, finalmente, riguarda l’Italia.

“Dovevo andare al Mantova, ero stato scoperto da Marco Ottolini, allora uno scout, oggi direttore sportivo del Genoa. Mi dissero che ero troppo inesperto per la prima squadra e troppo grande per la Berretti. Passai quindi al Legnago in Serie D. Lì ho trascorso 4 anni e mezzo molto belli, anche se inizialmente non fu facile. Non sapevo una parola di italiano, la mia famiglia era rimasta a Singapore e io ero da solo. Arrivai in dicembre, quindi passai dagli oltre 30 gradi ad una temperatura vicina allo zero. I primi sei mesi furono durissimi, ma sono sempre stato molto determinato. Quando lasciai il Legnago loro vinsero il campionato e salirono in C: probabilmente gli portavo sfortuna, eheh”.

Il distacco dall’Italia fu breve.

“Sì, feci un anno in Inghilterra nei semi-professionisti al Congleton Town, dove imparato tantissime cose. Quando tornai indietro conobbi Brescia ed il suo calcio”.

Hai girato il mondo e già vissuto 3-4 vite, quanto queste diverse realtà hanno inciso nella tua formazione e costruzione di calciatore?

“Come dicevo prima, in Australia al primo posto c’è l’aspetto fisico. Là mi sono fatto le ossa e ho imparato a lottare. Correvo i 100 metri e penso che il gesto atletico del cambio di direzione l’ho appreso in quegli anni. A Singapore l’opposto. Lì i giocatori sono piccolissimi, tecnici e vanno a 3.000. Zero fisico, zero idee di gioco, ma tantissima tecnica. Io con quel caldo e quell’umidità mi sentivo lentissimo, ho dovuto velocizzarmi ed affinarmi tecnicamente per stare al loro passo. In Italia poi siete fissati con la tattica, gli allenatori organizzano il gioco fino al minimo dettaglio. Ricordo che al Legnago mi rompevano le scatole se ero un metro avanti o un metro indietro rispetto alla posizione prestabilita. Un metro! Infine in Inghilterra ho fatto mia la loro mentalità e la loro durezza. A Manchester ho preso tantissime botte, è un football fisico e veloce, e menano spesso e volentieri. Ma soprattutto non mollano mai. In questo il calcio bresciano è molto simile. Non è un caso che io mi trovi così bene qui”.

Castegnato, Ciliverghe e ora Vobarno. Sei a Brescia per restarci?

“Ormai Brescia è casa. Vivo nel centro storico e la mia ragazza è italianissima. Sono qui da due anni, il calcio bresciano è difficile e tosto, ma anche competitivo e con qualità in tutte le squadre. Mi piace tantissimo e mi sono sempre trovato benissimo con tutti i compagni che ho avuto, sono rimasto molto legato anche agli ex. Alcuni li ritrovo giusto domenica in Vobarno-Ciliverghe, non vedo l’ora”.

In Valle Sabbia state soffrendo un girone di Eccellenza molto duro.

“Innanzitutto tengo a dire che a Vobarno la società è seria, ti fa sentire importante e ti mette nelle condizioni ideali per giocare. Personalmente penso che sto facendo abbastanza bene, ma in questo campionato probabilmente non basta, tutti quanti dobbiamo dare qualcosa in più del nostro meglio”.

Accanto al calcio ti stai costruendo una carriera lavorativa importante.

“I miei studi in Scienze Motorie e la mia esperienza del miglior metodo esistente, quello australiano, mi ha spinto a diventare preparatore atletico. Lavoro in palestra ma anche privatamente, col mio marchio Total Player. Ho sfruttato i viaggi in Inghilterra per avviare un’attività e costruirmi una rete che mi sta permettendo di lavorare con giocatori professionisti di prima fascia, anche giocatori del Manchester United e del Manchester City, tra cui Axel Tuanzebe, Brandon Williams e Cole Palmer. È la mia seconda passione, seguire calciatori così forti  è incredibile, un forte emozione. Salgo principalmente in estate, durante l’off season, poi torno qui. Per ora sto bene così”.

Australia, Inghilterra, Singapore, Italia. Solo due nazionali (ahinoi) sono al Mondiale. Come stai vivendo l’evento?

“Sto guardando le partite da casa, purtroppo non posso trovarmi coi miei amici al pub come farei se fossi a Sidney con loro. Io mi sento principalmente australiano, ma tifo anche Inghilterra per via delle mie origini. E, ci fosse stata, avrei tifato anche Italia. Nella nazionale di Singapore ho avuto anche l’opportunità di giocare, ma avrei dovuto fare due anni di servizio militare. Discutendone con mio padre e mio fratello – classe 2000, attualmente professionista a Cipro nell’Apea Akrotiri FC – declinammo la proposta. Dopo i gironi mi rimarrà probabilmente solo l’Inghilterra da seguire, ma va bene così”.

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