Dal Corriere della Sera-Brescia
Mariani, perché lo fece?
«Ero giovane, ho fatto una bischerata (ride, ndr). Io non ero un tipo molto diplomatico, parlavo in modo schietto, A Brescia mi aveva voluto Seghedoni, poi trovai in panchina Simoni che conoscevo dai tempi del Genoa: mi disse che avrei avuto spazio, poi però giocavano gli altri e a me restavano solo gli spezzoni. Gigi mi consigliava di aspettare, quella era una squadra con giocatori come Egidio Salvi e Bortolo Mutti davanti. Ma io ero fatto così e me ne andai via. Un errore di gioventù».
Però quella serata a Mompiano resta indelebile.
«Le dirò: è tornata a galla ora, dopo 45 anni. L’alluvione nel 1996 mi ha portato via tante foto ingiallite e le medaglie vinte in carriera. Ma quel gol me lo ricordo eccome: era una partita speciale, un evento, c’era anche mio fratello in tribuna a Mompiano».
E poi, dopo circa 10 minuti, cosa accadde?
«Arrivò una palla forte in mezzo, io svicolai dalla marcatura di Carlos Alberto (campione del mondo con il Brasile 1970, ndr), mi buttai in scivolata e feci gol. Un boato. Mai sentito prima al Rigamonti. Che ricordi…Lì per lì non mi resi conto della portata di quella rete, adesso ha tutt’altro peso anche se in fondo era solo un’amichevole».
Beckenbauer da vicino che impressione le fece?
«Guardi, lui non correva: dico sempre che in campo quella sera galleggiava. Era troppo superiore agli altri».
Tra i suoi avversari è stato il più grande. Ma qual è il compagno più forte con cui ha giocato?
«Il mio Genoa, che vinse la Serie B, era formidabile. C’erano Corso e Pruzzo con me: Mario mi diceva di correre e basta, che poi al passaggio ci avrebbe pensato lui».
Il soprannome Chiodino invece come nacque?
«Da giovane ero veloce e “pungente” (ride, ndr), pure magrolino. Stavo sempre sulla linea laterale, sa cosa mi diceva Silvestri quando mi allenava?».
Dica…
«Che mi avrebbe cambiato se si fosse accorto che le mie scarpe non erano bianche: dovevano sporcarsi con il gesso che delimitava il campo».
Senta, Mariani: perché in Italia non ci sono più «dribblomani» come lei?
«Ha ragione, quei giocatori non ci sono più. Io sono cresciuto alla scuola dei Domenghini e dei Conti, ma del resto a noi insegnavano concetti facili, che ho trasmesso poi per tanti anni nella mia Scuola Calcio Versilia».
Quali?
«Se hai la palla in difesa devi liberartene, se ce l’hai in mezzo al campo devi passarla, se ti arriva in area di rigore devi saltare l’uomo. La differenza, in questo sport, la fai solo se dribbli il tuo avversario e calci in porta».
Lo dice anche a suo nipote?
«Guardi, Diego ha 22 anni e gli dico che deve studiare. Mica come me: neanche il diploma ho potuto prendere, a quei tempi non ti facevano recuperare i giorni a scuola come adesso. Dovetti smettere. Io però alle sue partite non riesco ad andare, ho paura che si faccia male. Guardo il pallone solo in tv ormai, quest’anno tocco i 70».
La scuola calcio c’è ancora?
«Sono stato il primo qui in Toscana a insegnare ai bambini, lo sa? Anche alle bimbe. Dai 5 ai 9 anni io li accoglievo tutti. Poi è arrivato il Covid e abbiamo avuto troppe limitazioni: i genitori non si fidavano a mandarceli, noi dovevamo separare i ragazzini negli spogliatoi per evitare contatti. Mi sono intristito e ho deciso di chiudere. Basta».
Dopo il professionismo, per sedici lunghi anni, cosa ha fatto nella vita?
«Sono stato vice direttore di un supermercato, qui a Pietrasanta». Dove per tutti era e resta il mitico «Chiodino», mentre a Brescia ora verrà ricordato come «L’uomo che segnò a Beckenbauer».

