Dal Corriere-Brescia
Cristian Soave è oggi sulla bocca di tutti per un miracolo sportivo che strizza l’occhio ad altri successi impronosticabili che hanno scritto la storia calcistica del suo territorio, il veneto. Il suo Caldiero Terme – paesino di ottomila abitanti per il quale, da fuori, già la quarta categoria Figc appariva sovradimensionata – ha vinto il girone B di Serie D mettendosi alle spalle realtà di blasone, capacità e budget nettamente superiori. Lo ha fatto con metà della rosa per la quale il calcio rimane un dopolavoro e con un allenatore – Soave appunto – che un anno fa di questi tempi veniva retrocesso con il Breno. Le persone e le idee possono davvero tutto.
Mister, questo clamore mediatico comincia un po’ a pesare?
No, dire che sono stufo di rispondere al telefono e rilasciare interviste sarebbe maleducato. Sinceramente non mi aspettavo così tanta attenzione. Evidentemente è una storia che piace, non ho vergogna a dire che sono felice e fiero di raccontarla.
Il Caldiero di Soave come il Verona di Bagnoli e il Chievo di Delneri?
Sì, questi accostamenti sono girati nelle mie zone in questi giorni, al di là delle categorie diverse penso che di analogie ce ne siano. Eravamo la cenerentola della Serie D come l’Hellas scudettato e il Chievo capace di stare ai massimi livelli per tanti anni lo erano in A.
Quattro anni perse sua moglie per una grave malattia e allenava proprio a Caldiero. Cosa l’ha spinta a ripercorrere le orme del suo dolore?
Calcisticamente avevo lasciato un bel ricordo, l’avevo portata dalla Promozione alla Serie D. Ora abbiamo fatto un ulteriore passo.
Qual è stato il primo pensiero al fischio finale dell’ultima giornata?
Sono scoppiato in lacrime, non ho vergogna a dirlo, non sono riuscito a trattenere tutte le emozioni. Tra i primi pensieri mi è venuta in mente la stagione passata, chiusa con la retrocessione ai play-out con il Breno. È stato l’anno sportivamente più difficile, ma in soli dodici mesi sono saltato da una sofferenza cocente ad una felicità incredibile.
Con il mondo del calcio bresciano ha più di un collegamento.
Ho fatto le giovanili al Brescia e poi ho giocato in Serie D al Club Azzurri. Quella Primavera era forte, molti li sento ancora, i gemelli Filippini e Piovanelli mi hanno chiamato in questi giorni per complimentarsi. Da allenatore sono subentrato a Desenzano due stagioni fa; presi una squadra in difficoltà, mancammo i play-off solo per differenza reti. Ma anche di Breno ho un bel ricordo: Andrea Foresta è un gran direttore, nella società ho trovato grosse doti umane e i tifosi sono speciali. Da quella rosa mi sono portato dietro tre pedine che sono state determinanti quest’anno: Arma, Mondini e Turano. Sono contento che domenica si siano salvati, tifavo per loro.
Una realtà come Caldiero può sostenere il professionismo?
Può sostenerla. Il presidente è imprenditore bravo, che è stato capace di crescere a piccoli passi. Centro sportivo e stadio sono dei gioiellini. Poi nel calcio i soldi non siano tutto, servono le idee. Da parte mia passerò al part-time ma non lascerò il mio lavoro da operatore ecologico. E’ sempre stato la mia certezza in questi anni e non voglio rinunciarci: ho tre figli a casa
A chi dedica questa impresa?
Sportivamente al Caldiero, dirigenza e giocatori. Umanamente a chi non c’è più, mia moglie Elisabetta e Silvano Bendinelli, il mio secondo storico, venuto a mancare a dicembre. Ai miei tre figli e alla compagna che ho incontrato in questi anni, che mi hanno sostenuto. E anche a me, perché senza scorciatoie sono arrivato a meritarmi il professionismo.

