Ci sono dipendenze che si annidano nell’ombra, che possono ramificarsi in problematiche più estese, note ed evidenti, cercando di rimanere nascoste, dietro le quinte. Possono avere radici lontane, causare danni notevoli, portare all’isolamento e perfino all’annientamento individuale. Se ne parla troppo poco, per questo insieme alla dottoressa Tiziana Moioli, psicologa del Servizio Dipendenze degli Spedali Civili di Brescia, abbiamo deciso di inaugurare la nostra rubrica “Vietato perdere” parlando di dipendenze affettive.
“I dati di letteratura indicano che la diffusione della dipendenza affettiva nella popolazione oscilla tra il 3% e il 26%. Un range troppo ampio per risultare attendibile, ma che nonostante l’assenza di dati statistici precisi, ci spinge a prendere sul serio la dipendenza affettiva. Basti pensare che un fenomeno riconosciuto come la ludopatia si attesta al 36% della popolazione generale, sommerso escluso, ed è tenuto in seria considerazione. Non abbiamo dati perché, sebbene la dipendenza affettiva sia riconosciuta a livello clinico, non è inserita nel manuale dei disturbi mentali e, di conseguenza, mancano criteri diagnostici definiti, quindi le ricerche in questo campo sono esigue”.
Di dipendenza affettiva si è iniziato a parlare negli anni Settanta grazie al lavoro della psicoterapeuta americana Robin Norwood, autrice del libro “Donne che amano troppo”, nel quale la definiva come forma patologica d’amore, un bisogno compulsivo di relazione nonostante le sue conseguenze negative. “I soggetti che ne sono affetti – conferma Moioli – riconoscono la tossicità della relazione, ma non possono farne a meno. Si mettono in una posizione di sottomissione e di vittima rispetto al partner e l’amore diventa una dolorosa ossessione, una priorità assoluta rispetto alla propria vita. È maggiormente rappresentata nel genere femminile, anche se negli ultimi anni c’è un aumento tra gli uomini, probabilmente anche perché la società sta cambiando. Si parla sempre più di società liquida, contraddistinta da un ventaglio più ampio di sfumature tra i generi”.
I pazienti condividono caratteristiche comuni. “Nessuno viene da noi annunciando di avere una dipendenza affettiva, ma all’interno dei nostri percorsi abbiamo spesso riscontrato che altre dipendenze erano collegate ad un vuoto affettivo interno, e si finiva per dover lavorare lì. C’era un’incapacità da parte di queste persone a costruire relazioni soddisfacenti e gratificanti, all’interno delle quali il paziente finiva per mettersi in una situazione di sofferenza. La relazione non rappresentava un valore aggiunto per la propria vita, ma l’elemento disfunzionale da cui si sviluppa la dipendenza affettiva”.
Anche l’identikit dei sintomi è facilmente tracciabile. “Queste persone non provano più piacere per niente all’infuori del partner. Perdono concentrazione e interesse per tutto il resto: studio, professione, hobby e passioni. Rinunciano ad amicizie e affetti, lentamente si isolano. Senza il partner si trovano all’interno di un vuoto che non riescono a gestire. Ritengono che la loro vita non sarà mai piena, bella e soddisfacente senza il partner e quando ne sono lontane stanno male, possono sentirsi stressate fino a sviluppare quadri di ansia veri e propri”.
Come in tutte le patologie ci sono diversi gradi. Quello appena descritto è il più comune, ma la dipendenza affettiva può avere nei casi più gravi conseguenze drammatiche. “Ci sono casi estremi in cui la perdita dell’oggetto d’amore è intollerabile a tal punto da non riuscire assolutamente a staccarsene e sfociare in comportamenti violenti. Non sempre le due tematiche, tuttavia, si integrano. Si può arrivare anche all’annientamento di sé stessi. È il rischio più grosso: smettere di vivere, non mangiare più”.
Per gli operatori sanitari è importante scavare nel passato, tornando all’infanzia. “Troviamo molte risposte ricostruendo lo stile di accudimento dei genitori del paziente. Queste persone, nei primi anni di vita, non hanno visto riconosciuti i propri bisogni affettivi ed emotivi per svariate ragioni. Genitori assenti o poco presenti sul piano emotivo e di conseguenza bambini poco visti e/o lasciati a sé stessi rappresentano un fattore di rischio per lo sviluppo di tale patologia. La presenza, invece, è fondamentale e si traduce anche in gesti: il bacio, la carezza, l’abbraccio. Il rischio, in assenza di una relazione di questo tipo, è che una volta adulti questi soggetti inizino una relazione sentimentale sprovvisti degli schemi necessari, che pur di sentirsi amati e degni d’amore e per il timore di un abbandono siano portati a trattenere una relazione disfunzionale”.
Come prevenire questo scenario? “Difficile, ma non impossibile. Bisogna fare sempre più prevenzione a livello affettivo. Facciamo già tanti interventi nelle scuole su temi come droga e sessualità, porremo l’accento anche su psico-educazione e affettività. È utile a rintracciare situazioni a rischio. Il mio consiglio ai giovani? Innanzitutto, dico loro che amore non significa dolore e sofferenza: è il contrario. In secondo luogo, di ricordarsi che tutti vogliamo l’amore, ma non dobbiamo fare di tutto per averlo. L’amore non è ricevere, è soprattutto dare. Dovremmo smettere di assimilare la ricerca del partner alla ricerca dell’altra metà della mela. Bisognerebbe puntare su sé stessi e sul cercare di diventare una bella mela rossa, solo allora incontreremo un’altra mela rossa con cui potere costruire una relazione sana e gratificante. Bisogna inoltre prestare grande attenzione alle relazioni virtuali. Molti rapporti nascono ormai online e possono nascondere insidie”.
Dalla dottoressa un messaggio importante anche a genitori, parenti e amici: “Consiglio di non imporre soluzioni drastiche. Bisogna aiutare chi soffre a chiedere aiuto, accompagnandolo dagli specialisti. La patologia nasce da lontano, quindi può essere prezioso un percorso per sciogliere nodi del passato, anche solo per capire cosa sta succedendo. Il paziente ha ‘bisogno’ del partner in quel momento, insistere che lo lasci lo allontanerebbe ulteriormente dalla rete di supporto. A chi sta affrontando ostacoli di questo tipo dico che è giusto mettersi in dubbio, in discussione, ascoltare chi ti vuole bene e provare a lavorarci su. Da solo, in coppia o in famiglia. Lasciarsi non è l’unica soluzione. Non bisogna avere paura di chiedere aiuto. La letteratura scientifica e l’attività clinica che facciamo tutti i giorni dimostrano che un trattamento basato sulla psicoterapia individuale, di coppia, di famiglia e di gruppo con altri pazienti può aiutare le persone ad affrontare efficacemente il problema”.
Lo sport è un alleato prezioso: “Il calcio, come tutte le altre discipline sportive, aiuta a fare gruppo, a condividere esperienze, a seminare relazioni e a misurarsi come singoli individui e come parte di una rete sociale. Tutto questo senza dimenticare i valori che animano lo sport, che sono preziosi per la vita”.
Bruno Forza
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Tiziana Moioli è psicologa e psicoterapeuta, specializzata nell’ambito delle relazioni di coppia e della famiglia con esperienza nel mondo delle dipendenze affettive, comportamentali e senza sostanze, ma anche sui temi del gioco d’azzardo, della dipendenza da internet e dall’alcol. Lavora da 6 anni presso il SerD degli Spedali Civili di Brescia.
Spunti e approfondimenti
Dipendenza affettiva online, il servizio della trasmissione Le Iene.
”Donne che amano troppo”, un libro sul tema.