“A soli tre anni avevo già un pallone tra i piedi. Mio padre era un grande appassionato di calcio, ma all’epoca in Giappone non c’era il professionismo, quindi puntare in alto nel mio paese non era possibile, anche se ogni scuola aveva la sua squadra e lo sport era visto come un metodo di insegnamento educativo. Papà viaggiava molto per lavoro e mi portava le maglie dei grandi club. Io guardavo le loro partite in tv e studiavo tedesco sperando, un giorno, di approdare in Europa”.
La storia di Akira Yoshida inizia così. Il suo era il sogno di un bambino nato nel paese del Sol Levante al tramonto degli anni Ottanta. Un desiderio accarezzato dal vento salmastro che soffia su Kobe, nella baia di Osaka, con il monte Rokko silenzioso testimone dell’evoluzione di un talento che, con il passare degli anni, diventava sempre più brillante.
“Arrivarono gli anni del liceo, ed approdai in una squadra locale importante. Mi notò un italiano che aveva una scuola in Giappone e che faceva un po’ il procuratore, in modo amatoriale, mandando giovani talenti in Italia. Avevo 17 anni e una grande determinazione. Speravo di poter seguire le orme del mio idolo: Nakata. Colsi l’opportunità di andare in prova al Pescara, ma dopo un mese subentrarono delle problematiche relative al mio status di extracomunitario. Quel presunto procuratore era sparito nel nulla e mi ritrovai con le scarpe in mano in un paese distante 13mila chilometri da casa, senza una squadra e senza sapere dove andare, ma non volevo mollare”.
Arriva il momento più difficile. “Ero disperato. Piangevo in continuazione, ma quell’esperienza mi ha fortificato e oggi non ho paura di nulla, perché credo di aver già vissuto il peggio. Andavo in giro chiedendo a sconosciuti qualcosa da mangiare, una situazione incredibile. Per fortuna incontrai una famiglia di Ripa Teatina, in provincia di Chieti, che mi prese a cuore e mi aiutò. Giocavo in Eccellenza e il presidente mi assunse nella sua azienda. Cucinavo gli arrosticini. Poi un giorno, durante un torneo estivo, il Cus Chieti notò la tecnica e la rapidità che costituivano le mie caratteristiche principali e si aprì la strada alternativa del calcio a 5, che mi ha permesso di arrivare in Serie A e perfino a indossare la maglia della nazionale giapponese”.
Nel frattempo Yoshida estende il suo raggio d’azione oltre il calcio. “Ho messo a frutto diverse idee in ambito imprenditoriale sfruttando la rete di contatti creata grazie a questo sport. Grazie alla conoscenza di Nagatomo, ad esempio, anni fa incontrai Paolo Maldini e Christian Vieri. All’epoca avevano il marchio Sweet Years. Proposi loro il mio progetto nell’ambito della moda, con il marchio SY32. Nacque una bella collaborazione. A 27 anni decisi di smettere con il calcio giocato per seguire al meglio le mie attività. Oggi ho dieci ristoranti. Quattro a Roma, due a Torino, due a Milano e due a Brescia: i Ramen Bar di via Leonardo Da Vinci, a San Faustino e quello all’interno del centro commerciale Elnòs. Approdando qui a Brescia ho scoperto una città bellissima, della quale tutti si innamorano perché rispetto alle grandi metropoli italiane è pulita, silenziosa, dotata di servizi. È una piccola Milano, ma più ordinata. Tramite alcuni contatti mi dissero che c’era un locale disponibile vicino al Castello, ai piedi del colle Cidneo. Presi al volo quell’opportunità”.
Appesi gli scarpini al chiodo, tuttavia, Yoshida non ha smesso di dedicarsi alla passione di sempre. “Ho pensato che sarebbe stato bello fare da ponte tra il Giappone e l’Italia, in modo serio, per garantire a tanti ragazzi l’opportunità di giocare qui o semplicemente di vivere un’esperienza turistico-sportiva temporanea, così ho organizzato tournée per squadre giapponesi professionistiche e dilettantistiche, portando qui migliaia di persone. Il calcio italiano ha un’attrazione speciale per i giapponesi e sono felice di poter dare una mano a giovani meritevoli”.
Qualcuno di loro sta mettendo radici qui: “L’elenco è lungo. Nel femminile ci sono una ventina di giocatrici. Le più importanti sono Mihashi, recentemente passata dal Sassuolo all’Inter; Nanoka al Sassuolo; Kunisawa al Tavagnacco prima e al San Marino poi. Nel futsal maschile c’è Nagai nel Fiumicino in Serie A, poi una quarantina di calciatori tra B e C. A undici una cinquantina tra D e Eccellenza. Complessivamente ho portato qui più di un centinaio di talenti“.
Italia e Giappone dal duplice punto di vista di Yoshida sono due mondi che, per decenni, si sono guardati allo specchio da prospettive opposte. Impossibile non pensare ai numerosi bambini nati negli anni Ottanta che devono a Holly e Benji (Ōzora Tsubasa e Wakabayashi Genzō), protagonisti del celebre cartone animato giapponese, la nascita della passione per il calcio. “Abbiamo una marea di storie di quel tipo. Ce n’è perfino una ambientata in Italia, si chiama Totocalcio. Miyazaki, come Disney e molti altri, hanno fatto sognare intere generazioni. Il Giappone, però, è sempre stato un paese chiuso. Si è aperto al mondo solamente da un secolo. Roberto Baggio? Ha ispirato molti di noi. È amatissimo, anche per questioni religiose”.
Yoshida racconta così i primi approcci con il Bel Paese: “Per noi l’italiano è una persona solare, simpatica, scherzosa. Per decenni se parlavi di Italia in Giappone scatenavi stupore, interesse. Ora avviene il contrario, il mito del Giappone ha preso piede in Italia. Le mie difficoltà iniziali? Non capivo perché l’autobus a volte non si fermava e il motivo di pesare la frutta al supermercato. Osservavo gli altri e cercavo di imparare. La lingua è difficile, ma più semplice da leggere e pronunciare rispetto all’inglese. All’epoca poi non c’era internet. Meglio così, perché il cellulare non aiuta. Parlare con gli amici era il modo migliore per migliorare. In tre mesi parlavo arrangiandomi, nel giro di un anno conquistai fluidità nella conversazione. Con il cibo mai avuto problemi: buonissimo”.
L’Akira odierno è frutto della fusione di due culture: “Fin dall’inizio ho cercato di adattarmi senza dimenticare la mia identità e i miei valori, ma acquisendone di nuovi. In Giappone non butterei mai una sigaretta in terra. Non si fa. Quindi perché dovrei farlo qui? Ho mantenuto anche il rispetto per l’importanza del saluto. Io sono orgoglioso di essere sia giapponese sia italiano. Comportandomi così ho conquistato grande rispetto da parte di tutti. Nostalgia? No, se ho voglia di andare in Giappone prendo l’aereo e parto, nessun problema”.
Nel frattempo il calcio giapponese sta facendo passi da gigante, soprattutto con la nazionale. “Inizialmente si era pensato di replicare i modelli altrui, portando in Giappone allenatori e giocatori stranieri. Fu un errore, perché il calciatore giapponese è diverso nel fisico, nel pensiero, nella cultura. Nell’ultimo decennio le cose sono cambiate. La federazione di affiliò alla Fifa nel 1929. L’auspicio fu di diventare i primi al mondo nell’arco di un secolo. Siamo sulla buona strada. Oggi ammiriamo una squadra importante, che riesce ad essere se stessa esprimendo il suo calcio, fatto di difesa collettiva feroce, recupero della palla e ripartenze molto veloci con palla a terra. Ora sappiamo come giocare. Bisogna capire come vincere”.
Akira Yoshida l’ha capito. “Sono grato di ciò che mi ha dato la vita. Il mio obiettivo è continuare a crescere. Tendo a non essere mai contento di me, ma sono orgoglioso di tutti coloro che collaborano con me e operano al mio fianco, ragazzi e ragazze straordinari. Punto ad arrivare a 20 ristoranti, senza dimenticare il mondo del calcio. Attualmente alleno una squadra nella scuola giapponese di Milano. È puro volontariato, ma ci tengo moltissimo. Alleno anche la squadra in cui gioca mio figlio. Insegnare la vita divertendosi attraverso lo sport è fantastico. Posso dire di vivere al massimo. Sono felice e desideroso di mettere del mio in tutto ciò che mi appassiona”.
Bruno Forza