“Quando verranno i giorni di lotta guida il suo passo verso la vittoria”. L’inno nazionale serbo è una preghiera del popolo al Boze pravde, il Dio della giustizia. Le sue note risuonano alte nel cielo di Doha, in Qatar, dove le aquile debuttano provando a volare contro l’avversario più titolato e prestigioso: il Brasile. Il coro dei giocatori in maglia rossa è fiero, rimbalza a Belgrado e si diffonde nel mondo, sulla bocca dei tanti migranti sparsi in Europa e oltreoceano.
Tra le loro voci c’è quella di Boban, punto di riferimento della Locanda degli Artisti di Provezze, a una manciata di chilometri dalle rive del lago d’Iseo. Staziona in piedi, al centro della sala, con gli occhi color ghiaccio fissi sul televisore. La sua espressione è gioiosa, la mano destra picchietta sul cuore. Il suo canto solitario riscalda l’unico ristorante balcanico della Lombardia, dove all’ingresso campeggia il tricolore panslavo rosso, blu e bianco. Il locale ripropone le caratteristiche e i dettagli del tipico salotto serbo, impreziosito da icone religiose, foto storiche, soprammobili e scritte in cirillico. Un’ambientazione curata in ogni minimo particolare, intrisa di un mix di unicità ed ospitalità.
Ecco il covo bresciano del tifo serbo. È questo l’epicentro di una prospettiva diversa, quella che ci ha spinti ad osservare e vivere i Mondiali in un modo differente dal solito. La partita inizia e i tavoli si riempiono. Le voci dei telecronisti si mescolano a quelle dei presenti, molti dei quali hanno un filo rosso nel cuore che li collega a Vlahovic e compagni. Ci sono bresciani d’adozione nati al di là dell’Adriatico, ma che hanno messo radici qui. Non mancano uomini e donne figli di coppie miste: padre serbo e madre italiana, o viceversa. La nostra lingua si mescola a suoni incomprensibili, dove di tanto in tanto s’intrufola perfino il dialetto nostrano. Merito di zia Katushia, sin qui dietro le quinte, in cucina, ad aggiungere profumi identitari e tramandati di generazione in generazione all’immensa offerta culturale del ristorante. La sua dialettica è fluida (vive in Italia dal 1969) e impreziosita da qualche pota nostrano. Nell’arco della serata non lascerà dubbi sulla sua brescianità esibendo anche un termine riconducibile al calcio: pesàda.
Nel frattempo la nazionale più italiana dei Mondiali (ben 11 giocatori serbi presenti in Qatar militano nel campionato di Serie A), tiene botta al cospetto della seleçao. I verdeoro sono arrembanti, ma gli europei tipi tosti e restano a galla anche grazie alle parate di Vanja Milinkovic Savic, portiere del Torino e cliente della Locanda degli Artisti. “È stato qui un po’ di tempo fa – ci raccontano -, tornerà sicuramente. In futuro ci piacerebbe ospitare anche Ibrahimovic e Rebic del Milan. Anche loro sono balcanici e apprezzerebbero molto questo posto”.
Il “cocktail” di benvenuto è una grappa serba, giusto per mettere subito le cose in chiaro. Segue un ricco tagliere di affettati, toro compreso, da accompagnare con un’ottima birra Baraba. “In molti sottovalutano la nostra birra, forse dimenticate che nei secoli scorsi l’Austria sconfisse l’impero ottomano approdando in Serbia. A Pančevo c’è il più antico birrificio di tutti i Balcani, fondato nel ‘700. Abbiamo imparato qualcosa di importante”.
L’immersione nei sapori prosegue con la superba zuppa ai fagioli e pancetta. “Noi mangiamo così, questa non può mancare in inverno”. Mentre le papille gustative trionfano, la Serbia inizia a soffrire. L’estro di Tadic è ingabbiato, le occasioni da gol latitano e il Brasile accelera, spaventando gli avversari con Rafinha e Neymar, ma soprattutto con il clamoroso palo colpito da Alex Sandro.
Nel salotto sebino sale la tensione, attenuata da bottiglie di vino rosso dai toni mediterranei, ma le offensive brasiliane alzano i decibel della sofferenza, che provoca grida di tensione alternate a sospiri di sollievo.
In tavola arriva il sarma. La verza avvolge il manzo, che si tuffa in un brodo speziato ricco di sfumature. Zia Katushia lo presenta così: “Un piatto speciale. Mia nonna e mia zia mi hanno insegnato tutto. Cucinarono per Tito e il suo generale, ma i complimenti migliori arrivarono da un certo Orson Welles…”. Alle sue spalle si consuma la beffa: Richarlison trova la zampata dell’1-0 che gela i presenti.
Lo stomaco si riempie, soddisfatto, ma conserva uno spazio per il principe del menù: il ćevapčići, piatto contraddistinto da gustose polpette di carne di forma cilindrica accompagnate da patatine fritte, insalata e cipolla, ma soprattutto da una maestosa salsa ajvar ai peperoni.
Una cena da re, verrebbe da dire, mentre sul terreno di gioco Richarlison si mette in testa la corona di migliore in campo realizzando un gol da sogno in rovesciata. Partita chiusa, tifosi che scuotono il capo ma che la prendono con filosofia ed equilibrio: “Per noi è già importante esserci. Affrontare squadre come il Brasile è un onore e un’occasione per crescere. Contro Camerun e Svizzera, però, potremo giocarcela e ci proveremo. L’importante è che i giocatori restino uniti. Siamo forti se siamo compatti”.
Il volume della tv si abbassa, mentre ottiene spazio quella musica balcanica che ogni sabato sera trasforma il dopo cena della Locanda degli Artisti in festa, con balli e canti tipici. Ora è semplice sottofondo, che accompagna conversazioni tra persone di tavoli diversi. Qui funziona così. Il ristorante diventa un salotto in cui è possibile abbandonare il proprio posto per sedersi ad un altro. Incontri, nuove conoscenze, mani che si stringono, parole. Buone abitudini che la pandemia aveva messo in soffitta. Ascoltiamo l’incredibile storia di vita di Bojan, ammiriamo Annarita, ideatrice di un progetto sociale straordinario, parliamo con Boban di calcio e di vita, tra aneddoti e perle di saggezza. “Da ragazzino piansi molto perché avrei voluto andare a Bari a vedere la finale di Coppa Campioni vinta dalla mia Stella Rossa contro il Marsiglia. Era il 1991. Il traghetto era lì a portata di mano, ma non avevo l’età per ottenere il passaporto. Anni dopo sono diventato un ultrà. Ne ho viste di tutti i colori, soprattutto nei derby con il Partizan, ma è durata poco. Tifare è bellissimo, ma la violenza non ha senso. Nel tempo sono cambiato tanto, come è normale e giusto che sia. Ora scrivo poesie, per quello il ristorante si chiama così, anche perché nella nostra famiglia gli artisti non sono mai mancati”.
Tra loro va annoverata anche zia Katushia: “Ora anche voi siete miei nipoti – sentenzia –. Tutti quelli che passano da qui lo diventano”. La sua vita è un romanzo: “Quando sono in Serbia mi sento italiana, quando sono qui prevale l’affermazione delle mie origini. Ho il cuore diviso a metà, ma posso garantirvi che se gli italiani amassero il loro Paese la metà di quanto lo amo io, le cose andrebbero molto meglio. Mio marito è pugliese. Ho sempre vissuto in Franciacorta e fatto grandi sacrifici per portare avanti l’attività negli anni. All’inizio è stata dura, come per tutti i migranti. Io ho parenti e amici in tutto il mondo. Se partissi domani per andare a trovarli farei il giro del pianeta. In questi anni non ho mai mollato e ho trovato anche il tempo per il volontariato a sostegno della disabilità. Qualcuno ha aiutato me, e gliene sarò sempre grata, io ho fatto quello che potevo per gli altri, come durante la guerra civile nella ex Jugoslavia. Quanti chilometri avanti e indietro per portare aiuti. Non dimenticherò mai quella volta in cui mi puntarono una pistola alla tempia per due ore. Anche la pandemia è stata dura. Tenere il ristorante chiuso per un anno e mezzo è stata una grande prova, ma grazie a Dio siamo ripartiti e possiamo fare nuovamente ciò che amiamo, unendo sacrifici e soddisfazioni, incontrando persone in questo luogo dove culture diverse si arricchiscono a vicenda”.
“Quando verranno i giorni di lotta guida il suo passo verso la vittoria”. Uscendo dal ristorante le parole dell’inno tornano alla mente collegandosi ai volti, ai sapori, ai racconti, agli sguardi. Storia, fede, vita quotidiana e sport diventano un tutt’uno. Ogni serbo, ovunque si trovi, è un tassello di un grande mosaico del quale, inevitabilmente e incredibilmente, facciamo parte anche noi italiani, anche noi bresciani.
Bruno Forza