Da Avvenire
Dopo Libero di giocare, il secondo libro autobiografico, Ancora in gioco. Il viaggio interiore del capitano, (Sperling & Kupfer) di Franco Baresi si apre con un amarcord del poeta milanese e milanista Milo De Angelis che scrive: «Quando ero bambino ascoltavo una canzone – Io sono il vento – che mi ricorda Franco Baresi… Baresi è un giocatore epico che per vent’anni, fino all’ultima partita del 1997, ha creato sul campo una potenza corale, una potenza dove tutti venivano coinvolti, una sorta di antica falange rossonera capace di superare ogni ostacolo e di giungere alla porta avversaria come un vento irresistibile e meraviglioso». Franco Baresi in campo è stato un tornado che, a cominciare dalla palla in tribuna, spazzava via tutto. Un leader silenzioso quanto il suo faro azzurro, Gaetano Scirea. È stato il ministro della difesa del Milan e per i ras della Fossa rossonera l’autorevole “Kaiser Franz”. Per i critici del football, il “Beckenbauer italiano”. A lui, per guidare il reparto difensivo bastava alzare il braccio, e quello era il segnale del comando supremo e la riga tracciata come un solco, per i suoi e per gli avversari, con ammonimento perentorio: da qui in poi non passa più nessuno.
Ma il Capitano insegna che non è da questi particolari che si giudica un giocatore…
Con la Fondazione Milan, questa mission di andare incontro e in soccorso degli altri l’ha potuta realizzare.
Messaggi umanitari che nella sua breve esperienza di allenatore delle giovanili del Milan avrà trasmesso ai suoi ragazzi.
Un gioco naturale, quello del libero, che gli è riuscito facile per quasi un quarto di secolo vincendo tutto con il Milan: nei 15 anni da capitano ha conquistato 6 scudetti 3 Coppe dei Campioni e 2 Coppe intercontinentali. Un uomo libero e un libero di ruolo unico e irripetibile.
Una storia da piccolo eroe esemplare, quella ormai rarissima da una vita una maglia.
Queste, come canterebbe Paolo Conte sono «parole d’amore scritte a macchina». Sentimento reciproco, perché come suggerisce il collega e “milanologo” Massimo M. Veronese, «Baresi, forse, in carriera ha sbagliato tre partite, ma su 700 disputate con il Milan». Un percorso netto, epico, cominciato all’oratorio.
In quell’oratorio giocava con suo fratello Beppe, anche lui diventato uno storico capitano dell’Inter.
Quella mia e di Beppe, è una storia quasi unica e infatti nel libro scrivo che ancora oggi talvolta mi soffermo a ripensare come siamo riusciti a trasformare le avversità in insegnamenti. Abbiamo perso i genitori presto ma non abbiamo mai smesso di credere nel nostro sogno. Dopo quelle partite all’oratorio ci siamo ritrovati a giocare insieme qualche partita nell’Under 21. Ricordo la prima da azzurrini a Tunisi, nel ’78, c’era una pioggia e un vento che quelli del posto dissero non si vedeva da vent’anni. È stato bello – sorride – quando hai un fratello in squadra ti senti più tranquillo. Poi è stato fantastico anche da avversari: nei derby Milan-Inter chi vinceva sfotteva l’altro. Una battuta, una sghignazzata delle nostre e poi dritti negli spogliatoi, fratelli come e più di prima.
Cinquant’anni fa esatti lei entrava nel Milan. C’è un video su Youtube in cui giovanissimo racconta dei “sacrifici” di chi vive e si allena a Milanello.
I sacrifici li ho fatti ma era necessario e sono serviti e questo è il messaggio che lancio sempre ai giovani che cominciano adesso. Allenarsi per chi sogna di diventare un calciatore professionista è come fare bene i compiti a casa e crescendo di categoria vuol dire studiare sodo per poi presentarsi preparato agli esami di maturità. Se sei preparato e la fortuna ti assiste può accadere come a me di debuttare in Serie A 17 anni e poi ritrovarsi capitano del Milan a 22 e campione del mondo con la Nazionale dell’82… Senza sacrifici, tutto questo non sarebbe stato possibile.
«Vai e gioca come sai», le disse Nils Liedholm quel 23 aprile 1978, quando fece il suo debutto a Verona. Il “Barone” qualche anno dopo disse più o meno la stessa frase a Paolo Maldini, il giorno del debutto dell’altra bandiera milanista.
Liedholm era bravissimo nel motivare e nel non mettere mai pressione ai giocatori, specie ai più giovani. Il giorno in cui Paolo Maldini debuttò a Udine, nell’85, me lo ricordo bene. Mi ci sono rivisto nel suo esordio, si vedeva che la stoffa del campione c’era, ma per Paolo forse è stato un po’ più difficile che per me, c’era quel cognome che pesava e il confronto con suo padre Cesare bandiera a sua volta del Milan. Ma poi si è visto che tutto questo l’ha superato alla grande e vedo che anche suo figlio Daniel non è da meno.
Baresi però, rispetto a Maldini, non si è mai allontanato un solo giorno dal Milan, come ha fatto a resistere così a lungo?
Ho capito che uscendo dal campo avrei studiato altre materie e in tutti questi anni è come se avessi fatto l’università. Ho scoperto che oltre al campo c’è un’altra vita, e per quella da allenatore e poi di responsabile tecnico fino alla dirigenza e ora la vicepresidenza onoraria, ho imparato come dice il titolo del mio libro a rimettermi “ancora in gioco”. Il legame con il Milan è troppo forte ed essere qui significa sapersi adattare continuamente ai diversi ruoli che ti vengono richiesti. Vuol dire avere l’umiltà e il buon senso di fare un passo indietro quando serve, perché anche questo fa parte di quella passione che mi ha portato a coronare il mio sogno.
Parole dell’eterno capitano coraggioso, idolo del popolo milanista, ispiratore di poeti e di registi, come il cineasta tedesco Werner Herzog che ha detto di lei: «Baresi vedeva il gioco meglio degli altri, di ogni epoca e di ogni Paese».
Quelle parole mi hanno stupito e al tempo stesso ho provato un grande orgoglio per come Herzog avesse compreso il mio modo di giocare e soprattutto il mio modo di essere. È stato un piacere conoscerlo e al nostro incontro sono arrivato documentato sulla sua filmografia. Poi quando sono stato in Amazzonia sono andato a visitare Manaus per vedere il teatro e i luoghi dove aveva girato il suo capolavoro, Fitzcarraldo. Pensare in grande “issare la nave sulla montagna” come insegna Herzog, è sempre stata anche la mia filosofia, quella che mi ha portato ad affrontare sempre nuove sfide.
La sfida più grande fu vincere subito un Mondiale da 22enne già con il volto da “veterano”.
Bearzot mi diede la possibilità di fare parte di quel gruppo di grandi uomini prima che di campioni del mondo. Il mio cruccio, e anche il suo, è che in quel ruolo di libero c’era già un fuoriclasse e un modello umano da seguire come Gaetano Scirea che ho avuto la fortuna di osservare da vicino, imparando tanto. Mi sentivo affine anche caratterialmente a Gaetano, poche parole e tanta sostanza. Bearzot dopo la vittoria del Mundial pur di farmi giocare con Scirea mi schierava centrocampista, ma lì in mezzo al campo non mi sentivo a mio agio…
Nel suo ruolo naturale invece poi sfiora il bis ai Mondiali di Usa ’94. Altre pagine epiche: esce di scena per infortunio e rientra in tempo per giocarsi la finale contro il Brasile.
Una storia irripetibile anche questa, vengo operato durante a Mondiale in corso e torno in campo alla terza partita. Quei 25 giorni americani li avevo già raccontati in Libero di sognare perché volevo che la gente capisse cosa sono riuscito a tirare fuori in quei momenti di grande sofferenza. Lì sono venuti fuori tutti i miei valori umani e le conoscenze professionali apprese in una carriera lunga e piena di successi. E questo, in quel preciso momento, mi ha dato la forza di isolarmi per superare tutte le difficoltà fisiche e mentali per tornare in tempo con l’obiettivo di far vincere la Nazionale. Poi abbiamo perso ai rigori, io l’ho pure sbagliato, ma arrivare a disputare quella finale è stata la conferma del valore fondamentale dello spirito di sacrificio che vale sempre, nello sport come nella vita.
Le sue lacrime di Pasadena e quelle di Roby Baggio sono un pezzo unico di calcio e poesia.
È stato doloroso, ma abbiamo pianto tutti quel giorno. Noi per aver perso, forse meritatamente, e i brasiliani erano in lacrime e ringraziavano la stella di Ayrton Senna che da Lassù li aveva aiutati. Roberto Baggio con Gianni Rivera è stato il più forte numero 10 italiano con cui ho giocato. Roby è stato un altro esempio straordinario di “sacrificio”, ha sempre giocato a livelli altissimi pur con tutti i dolori e le tante operazioni subite alle ginocchia.
Il suo libro si chiude con questa riflessione: «La vera grandezza non sta in come misuriamo il tempo – un orologio da dieci euro segna la stessa ora di uno da diecimila – bensì negli spazi che creiamo… Mi conforta sapere di aver lasciato il segno dove il tempo non potrà mai arrivare»… C’è qualche altro segno che vorrebbe lasciare?
Vorrei continuare ad essere d’aiuto per le persone che hanno bisogno. Provare ad aiutare quelli che inseguono un sogno, come ho fatto io su un campo di calcio. Questo calcio d’oggi mi emoziona meno di un tempo perché ha perso un po’ di magia. La fisicità ha tolto spazio alla fantasia, però quella magia io la ritrovo ogni volta che incontro la gente per strada e sento nei miei confronti un affetto e un calore indescrivibile. Allora penso che anche tutto questo bene è il frutto di quella magia che abbiamo vissuto insieme, inseguendo il mio e il loro sogno