“Ai giovani allenatori dico semplicemente di essere se stessi. Non siate schiavi di un sistema, ma inventate il vostro e valorizzate i giocatori e il talento che avete a disposizione modellando intorno ad esso le vostre idee. Chi opera nei settori giovanili deve essere consapevole che la sua è una missione, non un lavoro. Lì gli allenatori hanno il compito di aiutare i ragazzi a crescere. Se alleni pensando a te stesso e alla tua carriera è meglio che tu smetta subito di frequentare i vivai”.
È un messaggio forte e chiaro quello di Cesare Prandelli, ospite d’onore della serata d’incontro e formazione “Il calcio dei bresciani” organizzata dall’Aiac provinciale, capitanata da Andrea Fedrizzi, in sinergia con Garda Soccer Academy. Location dell’evento la splendida cornice de Il Giardino Franciacorta. Conduttore Alberto Pasini, preparatore atletico della Juventus Next Gen.
L’intervento del tecnico di Orzinuovi ha fatto seguito a quelli degli ex Brescia Nicola Pavarini ed Emanuele Filippini. Il primo ha parlato dell’evoluzione del ruolo del portiere nel calcio moderno; il secondo ha esteso il discorso agli altri ruoli e reparti.
Con l’ex commissario tecnico della Nazionale, invece, dialogo aperto per la condivisione di esperienze, aneddoti e opinioni che hanno certamente arricchito i tecnici bresciani accorsi a Paderno Franciacorta.
“Il nostro calcio non ha saputo trarre giovamento dai cambiamenti del calcio moderno, anzi, ne è diventato vittima” ha affermato Prandelli. “Perché non riusciamo più a sfornare attaccanti? Se costringi i ragazzini a fare soltanto sponde e appoggi non svilupperanno determinate caratteristiche fondamentali in quel ruolo. Devono innanzitutto saper fare gol, invece si tende a inquadrarli in un sistema che va al di là dei loro talenti. Una volta gli spettatori potevano apprezzare i gesti tecnici dei giocatori, ora devono accontentarsi delle percentuali di possesso palla, che spesso non coincidono nemmeno con un quantitativo di tiri in porta degno di nota”.
Prandelli è un fiume in piena: “Purtroppo al giorno d’oggi se non parti dal basso sei considerato vecchio, a priori. Eppure ho visto allenatori retrocedere per restare fedeli a questa filosofia. I numeri parlano chiaro: solo il 2,6% delle azioni impostate in quel modo conduce la manovra di una squadra nella metà campo avversaria. Come può funzionare un gioco in cui i portieri toccano la palla più dei centrocampisti?”.
Un ragionamento che, secondo l’allenatore bassaiolo, conduce ad un paradosso. “Oggi si pensa di essere offensivi, ma io ricordo un’Italia che a Spagna ’82 andò in gol in finale con Tardelli mentre Bergomi e Scirea (difensori) stazionavano nei pressi dell’area avversaria. Si giocava con due punte più Antognoni e Conti, con Cabrini che spingeva sulla sinistra. Quali squadre al giorno d’oggi schierano 5-6 giocatori offensivi? Io nelle giovanili dell’Atalanta avevo Morfeo e Locatelli. Non sono così convinto che oggi potrebbero giocare insieme. I numeri 10 sono ormai scomparsi”.
Oltre alle dinamiche di campo la gestione del gruppo riveste grande importanza nelle mansioni di un allenatore, ad ogni livello: “Io tendevo a responsabilizzare i giocatori. Facevo stilare a loro il regolamento ad inizio stagione. Quando c’è un’incomprensione, del malcontento o delle tensioni è importante confrontarsi e chiarire subito, non vanno lasciati strascichi“.
Su un possibile ritorno in panchina nessun dubbio. “Lo escludo, il mio percorso da allenatore è concluso, anche se ovviamente mi manca il campo, il rapporto con i giocatori, vedere una squadra che cresce. Mi sarebbe piaciuto allenare il Brescia. Corioni mi chiamò due volte, ma in entrambe le occasioni avevo già trovato un accordo con altre società. Le esperienze all’estero mi hanno dato molto dal punto di vista culturale, ma dal calcio straniero non posso dire di aver imparato granché. Crebbi molto, invece, nel settore giovanile dell’Atalanta. La fortuna mia e di altri allenatori fu che durante la ristrutturazione di Zingonia riservarono lo stesso spogliatoio a tutti i mister. Ne nacquero occasioni di confronto continue, con benefici enormi per ognuno di noi e per i giocatori stessi. In quegli anni portammo 35 ragazzi in Serie A. Ricordo l’evoluzione dei gemelli Zenoni: Cristian da punta a terzino e Damiano da esterno a centrocampista centrale. Venivano da un periodo di stop, li rilanciammo sorprendendo tutti”.
Ripensando alla sua carriera impossibile dimenticare la finale di Euro 2012: “Il nostro errore fu nella programmazione. Non era stato previsto un percorso così lungo. Facemmo scelte organizzative e strategiche errate e arrivammo alla finale cotti, peraltro contro una Spagna strepitosa. Il loro segreto? L’ho scoperto a Valencia. Giocano tutti allo stesso modo fin da bambini. Quei rondos li divertono e sono funzionali al loro sviluppo. Li ripetono in continuazione, poi li applicano in partita”.
L’Italia è figlia di un’altra mentalità e di ostacoli notevoli anche in ambito educativo. “Mi è capitato di sentirmi dire da genitori che dovevo pensare ad allenare, non a educare. Che non dovevamo badare al rendimento scolastico nelle giovanili, ma focalizzarci sul calcio. Sul 3-0 in una semifinale nazionale della categoria allievi contro la Juventus ricevemmo fischi perché facevamo possesso palla per non infierire. La cultura sportiva è intrisa di problemi storici. Anche ai miei tempi c’erano società che volevano i risultati nei settori giovanili o pretendevano sfornassimo giocatori in continuazione per la prima squadra. Poi l’allenatore è un precario e lo sarà sempre. Se tornassi indietro gestirei meglio i rapporti con i direttori sportivi. Le collaborazioni con Foschi, Baldini e Pavone sono state splendide, ma credo che l’ultima parola sugli acquisti spetti sempre all’allenatore, che è l’unico che rischia davvero il posto se qualcosa va storto”.
Poi gli aneddoti: “A Parma Emanuele Filippini si spazientiva perché Mutu correva poco, così comunicai con lui in dialetto dalla panchina. ‘Domandega se el sta bé!’ ‘El dìs de sé, mister’. ‘E alùra dìga de corer!‘ E lui traduceva”. Filippini che era conteso dai giocatori di talento del Parma. “Una volta Nakata, con grande educazione e rispetto, mi chiese se fosse possibile invertire Lamouchi ed Emanuele, voleva avere uno scudiero a disposizione”.
Indelebile anche il ricordo degli incroci con mister Adriano Cadregari, attivissimo nell’incalzare gli ospiti della serata con domande dal piglio giornalistico: “Quando vinse il Viareggio il suo Brescia e la mia Atalanta erano le squadre più forti d’Italia. Purtroppo ci scontrammo prima della finale. Oggi l’Atalanta raccoglie i frutti di un progetto imbastito con pazienza da dirigenti che capiscono di pallone e che hanno garantito grande solidità al club, che ormai ha caratura internazionale. Il Brescia? Questa città avrebbe tutto per arrivare agli stessi livelli, mi auguro di vederlo presto in A con un progetto entusiasmante. Attualmente le difficoltà non mancano, la piazza è impegnativa e penso che Bisoli (nuovo allenatore della Rondinelle ndr) sappia come gestire l’ambiente. Maran era partito molto bene. Da fuori è difficile capire cosa non abbia funzionato”.
Discorso simile per il flop europeo degli Azzurri. “Devo dire che dopo quell’esperienza deludente la squadra è tornata in campo con un piglio diverso. Merito di Spalletti, che ha capito cosa non funzionava, probabilmente c’era troppa tensione e qualche difficoltà dal punto di vista della personalità. La Nazionale ora sta dimostrando di avere qualità e gioco”.
Sugli allenatori del momento Prandelli vota Baroni della Lazio: “È arrivato dopo una lunga gavetta alle spalle. Significa che in Italia ci sono grandi allenatori, anche lontano dai riflettori. Ha esperienza e non ha un sistema di gioco ben preciso, ma è capace di valorizzare i giocatori e metterli nel posto giusto. Merita le soddisfazioni che sta ottenendo, mi piace molto”.
Infine un pensiero per Balotelli. “Mario è un ragazzo buono e per bene, sebbene ci sia intorno a lui quell’aura del personaggio che infondo non lo rappresenta. Le qualità le ha sempre avute, sono felice che sia tornato in Serie A. Mi piacerebbe vedergli scrivere una bella favola in questi ultimi anni di carriera. Ne sarei molto felice”.
Bruno Forza