Gustavo Aragolaza e l'Argentina: "La vita è avversaria e maestra. Perciò la porto in campo"

Che quella di un mese esatto fa sia stata la finale più bella di sempre, di un Mondiale o in assoluto, dipende dalla sensibilità e dal background di chi l’ha vissuta (in campo, allo stadio, alla tv). Argentina-Francia si è giocata nel pomeriggio italiano del 18 dicembre 2022 ed in serata si parlava già di instant classic. Qualcosa che non ha bisogno di lievitare nel tempo per assumere contorni leggendari, mitologici. C’è stato tutto: gli antefatti che si componevano per creare un’atmosfera solenne, la presenza di un eroe e di un antieroe (intercambiabili a seconda del punto di vista), il fatto che entrambi abbiano ripetutamente messo in atto gesti eroici (non è scontato che ciò si verifichi, men che meno simultaneamente), il dramma che sfuma in tragedia, la mistica che piega il destino, l’inevitabile glorificazione dei vincitori contrapposta al seppellimento (sportivo) degli sconfitti.

Chi ha dimestichezza di sport sa che un evento che mantenga la sua tensione per tre ore senza praticamente accusare cali ma fornendo continui climax d’eccitazione/sofferenza non è probabilmente ascrivibile al calcio. Che appassiona, certo, ma in maniera rapsodica nel corso dell’ora e mezza standard della sua rappresentazione/fruizione. E ci sono esempi di partite molto rilevanti per la posta in palio ma molto parche nella trasmissione di emozioni legate al gioco in sé. In Argentina-Francia, per merito dell’Argentina, il coraggio del voler far la storia ha vinto sulla paura di perdere un’occasione irripetibile. E, per merito della Francia (più precisamente di una manciata di interpreti francesi), il processo di glorificazione ci ha messo appunto tre ore prima di completarsi.

In conclusione e a prescindere dal tifo che si è fatto, se per Ettore o per Achille, chiunque abbia vissuto la finale di Doha ha potuto pensare, sfinito emotivamente, di aver partecipato a qualcosa di unico e probabilmente irripetibile. Figuriamoci per chi è argentino. Ai cancelli di un cimitero di Lanùs, quartiere di Buenos Aires, qualcuno ha scritto: “No saben lo que perdieron”. Accadde la stessa cosa a Napoli dopo il primo storico scudetto, nel 1987, chiaramente nella versione italiana (“Non sapete cosa vi siete persi”). Fate voi tutti le relative associazioni mentali conseguenti.

C’è un argentino che, da quel 18 dicembre, tornerà ciclicamente a vivere la contraddizione tra la felicità indescrivibile della vittoria ed il rimpianto di non averla potuta seguire in diretta. Mentre Messi e Mbappé facevano esercizio di grandezza, lui sorvolava l’Oceano Atlantico, da Madrid a Buenos Aires. Atterrato nella capitale argentina, nemmeno la possibilità di fermarsi per la processione all’Obelisco di Plaza de la Republica, perché casa sua distava altri 1.500 chilometri circa. Quindi altre due ore e mezza di aereo. Una volta a Rawson, capoluogo della provincia del Chubut, Patagonia, Gustavo Aragolaza ha potuto finalmente festeggiare.

Non è stato un anno semplice per il cinquantaduenne tecnico argentino, sia professionalmente che umanamente. Il rischio è stato fino all’ultimo quello di archiviare il 2022 alla voce fratture: quella con la compagna, dopo dieci anni di relazione; quella con il Brescia, dopo tre stagioni tra Allievi nazionali (una) e Primavera 2 (due). Per fortuna la Scaloneta ha rimescolato le carte. Prima di imbarcarsi da Madrid, senza farci caso, l’aveva pure profetizzato: “Non so se riuscirò a vedere qualcosa in volo, spero almeno di avere notizie. Arriverò in Argentina che sicuramente si starà festeggiando”. Nel voler dire che sarebbe arrivato tardi, gli era sfuggito non tanto quel “si starà festeggiando”, ma quel “sicuramente”. Ennesimo indizio che doveva finire così, con buona pace dei galletti.

Il legame tra popolo e selezione albiceleste si è riacceso nel 2019, con la vittoria della Copa America in finale con gli eterni rivali brasiliani. In quel momento anche Leo ha acquisito una nuova consapevolezza. La scimmia è scesa dalla spalla e in Qatar abbiamo ammirato un giocatore più sereno, dunque finalmente irresistibile su ogni aspetto, anche quello caratteriale percepito. Ma non ci sarebbe stato l’uno senza il tutto, senza il tutti: “Con i problemi economici e sociali dell’Argentina, la Selecciòn è la cosa più bella che ci stia succedendo. Tutte le partite dei Mondiali le ho viste a Brescia, li ho anche commentati per alcune radio argentine. Ho vissuto bene tutto il percorso, questa Nazionale ha preso anche me. È stato creato un gruppo straordinario, è quello il motivo per cui si è arrivati in finale. Su Messi c’è poco da dire, è il migliore del mondo. Lui e Diego sono l’Argentina”.

In questo mese ci sono state le vacanze natalizie ed Aragolaza, tornando a casa, ha avuto modo di spendere momenti di qualità con la propria famiglia, prima di riprendere in mano il discorso carriera, legato al discorso futuro. Che lo rivedrà, quasi sicuramente, in Europa, in Italia, a Brescia. Natale e Capodanno li ho voluti fare a casa, ma il 19 gennaio sarò a Brescia. Parlerò certamente con qualche persona che conosco in Argentina, vediamo se ci sono proposte… ma l’idea è di tornare in Europa”.

Dalla scorsa estate, dopo essere rimasto a piedi per l’esonero deciso da Cellino (argomento sempre attuale), l’uomo di Patagonia si è fermato al centro cittadino San Filippo, per dare una mano alla Voluntas Brescia dell’amico Agostino Esposito, mettendo sul campo e, ancora una volta, nel lavoro coi giovani, tutta la sua decennale esperienza. Partita da lontano ed arrivata così vicino grazie proprio all’imprenditore sardo, salutato con grande eleganza anche nel momento dell’abbandono. Quest’estate non è stato facile per me, ma posso solo ringraziarlo. Quando qualcun altro prende una decisione anche per te si può solo accettarla. Il destino troverà qualcos’altro di bello. Ho pensato solo a ritrovare la serenità e credo di esserci riuscito”.

“Cellino è stato fondamentale nella mia carriera e nel mio approdo in Italia dopo gli inizi nel mio Paese. Sono del Sud, della Patagonia, di Rawson. Ho cominciato giocando nella mia città, ero un portiere. A 19 anni mi trasferii in Cile in Serie B, poi tornai in Argentina in Serie D, C e poi B; giocavo in una squadra che si chiama CAI e in quella rosa c’erano i giovanissimi Sergio Romero, Mario Alberto Santana e Pablo Barrientos. Successivamente mi mossi negli Stati Uniti, nella loro Serie B. Era il 2000-2002. Quindi andai in Spagna, in Serie D. Lì mi ruppi il crociato e feci la scelta di vita di andare a vivere a Miami”.

La Florida, oltre al sole, le belle ragazze, il castigliano come seconda lingua ufficiale, portò anche l’incontro con l’attuale patron delle Rondinelle: “Entrai nella sua scuola calcio. Partii allenando i portieri fino a diventare responsabile del progetto. Feci quattro anni con lui, prima del problema con il permesso di soggiorno…”.

Nel racconto di quell’esperienza si trova il motivo di quella serenità con cui Aragolaza affronta oggi le curve strette che la vita (privata e professionale) gli pone davanti: “Mi arrestarono e mi rinchiusero due mesi in carcere perché ero entrato negli USA da clandestino. Non auguro a nessuno di passare quello che ho passato io. Vivevo a Miami, avevo una macchina, un lavoro, un appartamento, un guardaroba. Perdere la libertà da un giorno all’altro credo che sia la cosa peggiore che possa succedere ad una persona normale e perbene come me. Se però la superi vivi la vita con più serenità, perché hai conosciuto quali siano i veri problemi. Altro che perdere una partita. Provai a stare tranquillo, giocavo a calcetto con gli altri detenuti, cercavo di far passare le giornate. Non è stato facile ma mi è servito, anche nel rapporto coi ragazzi che alleno. O si vince o si impara, questa è la mia filosofia”.

Spedito fuori dagli States, Gustavo torna in Patagonia, finché nel 2011 non riceve una telefonata. Dall’altra parte della cornetta sempre lui, Cellino: “Mi portò a Cagliari a fare l’allenatore dei portieri. In quelle stagioni legai con mister Gianluca Festa, con cui poi lavorai anche nell’esperienza di Como. Successivamente collaborai col Centro di Formazione Inter ‘Gianfranco Matteoli’, sempre in Sardegna”. E arriviamo ai giorni nostri. Stesso cellulare che squilla, stesso interlocutore: “Cellino mi chiese di venire a Brescia. Qui ho iniziato ad allenare ‘da solo’, nel settore giovanile. Prima con l’Under 17, poi con l’Under 19. Il punto più alto proprio nella passata stagione, prima dell’esonero: la semifinale playoff in Primavera 2. Al momento alla Voluntas Brescia curo la tecnica in tutte le categorie”.

Eppure in estate era praticamente fatta col Giarre in Serie D, prima che la LND rifiutasse la richiesta d’iscrizione al campionato dei siciliani. “Un’esperienza incredibile, seppur brevissima. Eravamo solo io e il direttore generale, nessun giocatore in rosa. In un mese e una settimana abbiamo messo in piedi un’intera squadra, provinando e pescando anche tanti stranieri. Abbiamo affrontato e risolto molti problemi, purtroppo poi la società non è stata ammessa al torneo. La considero comunque una bella avventura”.

Cossu e Conti, Joao Pedro, Cragno e Barella (avuto anche a Como, assieme a Scuffet). Nel suo trascorso negli staff tecnici di A e B Aragolaza ha potuto toccare con mano puro talento, più o meno acerbo. “Barella l’ho allenato in tutto il settore giovanile a Cagliari, accompagnandolo fino alla prima squadra. Sono stato la prima persona che ha parlato con lui nell’anno del prestito al Como. Con lui ho un bel rapporto. Nel Brescia-Inter di Serie A mi fece un regalo bellissimo, regalandomi la maglia al termine del match”.

“Anche con Conti ho un bellissimo rapporto, lui era capitano e bandiera, si vedeva che dava tanto, e poi aveva una qualità grandissima. Joao stava cominciando ad emergere. Ho lavorato anche con Scuffet: aveva tantissima condizione, chissà che la pressione del predestinato non gli abbia fatto pagare qualcosa, ma rimane un portiere fortissimo. Come Cragno, che era in panchina a Cagliari e stava crescendo come una grande promessa. Tutti hanno un lato umano eccezionale.

A Brescia, invece, ha seguito da vicino la crescita di Papetti, recentemente convocato dal ct della Nazionale Roberto Mancini per uno dei suoi canonici stage. L’impressione che si ha da osservatori, tuttavia, è che manchi qualcosa al classe 2002 per acquisire la dimensione che molti addetti ai lavori gli attribuiscono. Infatti fatica a ritagliarsi uno spazio costante in una media Serie B. Prima che arrivassi giocava terzino, lo misi io centrale. Sono contento ed orgoglioso del suo percorso, anche se credo possa dare di più, perché l’ho conosciuto sempre in crescita. Un onore la chiamata in Nazionale”.

C’è però un gruppo su tutti che è rimasto sulla pelle dell’argentino. Letteralmente. L’esperienza con la classe 2003 è la cosa più bella che mi sia capitata da allenatore. Sono state tre stagioni nelle quali sono cresciuto con loro e loro con me. In Primavera abbiamo lasciato il segno insieme, dopo quindici anni che Brescia non arrivava ai playoff. Per me è un onore e un orgoglio aver lavorato con loro, e che si ricordino di quello che abbiamo fatto (basta leggere l’intervista-identikit di Luca Bertoni, oggi in D al Franciacorta, ndr). Sette di quei giocatori dal comune percorso si sono voluti addirittura fare un tatuaggio per suggellare questa esperienza condivisa. E niente, me lo sono fatto anche io”.

Un gesto concreto che dice molto su come il tecnico intenda il calcio, giocato ed allenato. “Credo tanto nell’empatia, sia nei gruppi giovani che tra i ‘grandi’. Dei ragazzi bisogna conoscere le problematiche: ogni settimana parlavo con due-tre giocatori, per sapere come stessero. Ho sempre intessuto buoni rapporti”.

“Poi in campo ricerco la semplicità. Non ho un modulo di riferimento, anche se statisticamente ho giocato tanto con il 4-2-3-1 per la qualità dei giocatori che avevo. Sono flessibile. Il calcio è arte, non scienza. Alleno i princìpi, come la palla a terra, il terzo uomo, il movimento, l’occupazione degli spazi. E cerco di rubare qualcosa ad allenatori di alto livello come Bielsa, De Zerbi, Guardiola. Ma anche Simeone. Ho iniziato con le idee del Cholo quand’ero all’Under 17, che era una squadra di basso livello tecnico. Ecco, poi per me la tecnica è fondamentale”.

Ingrediente spesso mancante nella prima fase d’insegnamento, almeno qui in Italia, almeno da quello che si dice, anche se forse la tendenza è in trasformazione. “Nei settori giovanili la si insegna ancora troppo poco. Cruijff diceva: ‘Se non riesci a controllare la palla, non la puoi nemmeno passare’. Poi il calcio è felicità, bisogna divertirsi. Nella mia carriera però ho sempre insegnato anche a non mollare mai, a stare sempre sul pezzo, c’è un grandissimo lavoro mentale da stimolare”.

Tecnica, coraggio, idee, resistenza alle difficoltà, durezza mentale. Caratteristiche che si depositano perfettamente sulle immagini delle intense, appassionanti, indimenticabili tre ore partecipate trentuno giorni fa. Il calcio può fare anche questo miracolo: sovrapporre una finale Mondiale ad una sfida tra amici nel potrero sottocasa e restituire la medesima dignità, lo stesso carico di sogno. L’uomo (e la donna) vive il pallone, il calcio gioca la vita. Due insiemi concentrici. “La mia speranza è che, almeno in parte, sia riuscito a trasferire ai ragazzi che ho allenato un po’ della mia vita e della forza che ho dovuto tirar fuori per affrontare le difficoltà che mi si sono messe davanti in questi 52 anni. Dalla perdita di mio padre al carcere, dalle delusioni sportive a tutti i giri che ho fatto nel mondo. Se così fosse, potrei considerarmi un buon maestro.

 

Matteo Carone

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